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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Susheela Raman
l'intervista

 

Alle 9 de la tarde di sabato12 luglio, luna piena del Cancro, Susheela Raman fa il suo ingresso nella Miles Davis Hall del Palazzo dei Congressi di Montreux alla testa di una band che più “nu global” di così non si potrebbe. La Grecia è rappresentata dal flautista Mamos

(il cognome è sconosciuto), il Vietnam dal bassista Mao (idem come sopra), la Guinea Bissau dal percussionista Djanuno Dabo, l’India dallo strepitoso tablista Aref Durvesh. E poi, ovviamente, c’è l’Inghilterra: nelle vesti del chitarrista Sam Mills, produttore e compagno di vita e d’avventura della splendente Susheela. Che, dal canto suo, esibisce un sorriso a 32 denti e una felicità che si taglia con il coltello. E lo dice a chiare lettere: «I’m extremely happy to be here!», esclama scandendo per bene l’avverbio, quando gli applausi le danno un po’ di tregua. E poi inizia a cantare.
Gran bel concerto, non c’è che dire: anche se un pochino discontinuo e disomogeneo. Perché Susheela, in una sorta di ricerca dell’unità, tenta saggiamente di mettere d’accordo l’anima con il corpo. Affida la prima, soprattutto, a canzoni della tradizione carnatica, ricche di secoli e di gloria, e il secondo a un repertorio più recente, a volte prodotto in proprio. Ma proprio da qui nascono gli sbalzi di tensione. Perché queste canzoni “laiche”, seppur molto intense e ben costruite, non riescono assolutamente a reggere il confronto - per fascino, profondità, sensualità sottile - con quelle “sacre”, che devono la loro fulgida bellezza alla straordinaria ricchezza interiore di chi le ha composte. E solo il tempo ci dirà se sarà possibile trovare una mediazione, fra le une e le altre. 
Comunque Susheela Raman è una vocalist superba, non a caso premiata quest’anno dalla BBC 3 come miglior esordiente nella categoria World Music. E il giorno dopo, davanti alle placide acque del lago di Ginevra, accetta con piacere di raccontarsi...

Allora Susheela, cominciamo dalle origini...
«Va bene. Sono nata a Londra, ma i miei genitori sono di Madras, la capitale del Tamil Nadu, India del sud-est. Molti miei parenti abitano ancora da quelle parti, però, per uno strano gioco del destino, io sono cresciuta in Australia. Ed è forse questo strano miscuglio di terre e di influenze quel che dà alla mia musica un carattere alquanto cosmopolita: un po’ di Inghilterra, una spruzzatina di Sidney (che è completamente diversa da Londra), una robusta dose di India meridionale... Agitare per bene, e il gioco è fatto!».

Già. Ma gira voce che il tuo rapporto con le “radici” non sia stato sempre idilliaco, vero?
«Proprio così: la crisi - come quasi sempre avviene - è coincisa con il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Allora mi è venuto davvero il disgusto per la musica della tradizione indiana: ho cominciato a rifiutarla quasi con rabbia, mi sono tuffata nel funky, nel pop, nel rhythm ‘n’ blues: Billie Holiday, Robert Johnson, Aretha Franklin, Chaka Khan, il Miles Davis elettrico... Ero selvaggia, aggressiva in una maniera spaventosa... Gettavo tutte queste mie frustrazioni nella musica che facevo: a Sidney, nei bar più “caldi” della metropoli australiana...».

Finchè, a un certo punto, sei diventata completamente afona...
«Già, è quello è stato un momento davvero tremendo! Un cantante senza la voce è come un centometrista senza polpacci: una cosa senza senso! Ma quella “menomazione” è stata anche mooolto positiva. Mi ha fatto capire che non potevo proprio continuare in quella maniera lì...»

E così, nel 1995, sei ritornata in India...
«Già, quello è stato il vero punto di svolta della mia vita - almeno fino ad oggi, è ovvio. Vedi, grazie a mia madre - che ha una voce straordinaria, pur non essendo mai diventata una cantante professionista - io sono cresciuta nel pieno rispetto della tradizione indiana: nell’intenzione (e nella voglia) di preservarne l’integrità e l’identità. Tant’è vero che fino a 14 anni non ho ascoltato altro che musica carnatica, la musica classica dell’India del sud. Mia madre mi svegliava molto presto, la mattina, e insieme intonavamo canzoni tradizionali, musiche religiose, inni devozionali. Ecco, dopo la “parentesi australiana” - molto dolorosa, ma anche molto istruttiva - sono ritornata a fare quel che ho sempre fatto: con enorme gioia e profonda partecipazione».

Hai studiato con qualcuno, in particolare?
«Oh sì, ho studiato con due insegnanti straordinarie: Shruti Sadolikar e Aruna Sairam. Shruti è una delle più grandi cantanti hindustane, una vera autorità nel repertorio dell’India del Nord; e Aruna è la sua omologa, per quel che riguarda il versante carnatico del Sud. Così, dopo un bel po’ di tirocinio, la voce mi è “miracolosamente” tornata! Ma non era la mia voce di prima, molto rock e aggressiva. Era una voce completamente diversa, molto più dolce, rotonda e grave allo stesso tempo. Un altro miracolo...».

E’ vero. E proprio con questa voce hai dato vita ai tuoi due dischi solisti: “Salt Rain” del 2001 e questo recentissimo “Love Trap”.
«Già, e per questo devo pubblicamente ringraziare Sam Mills, il mio produttore e chitarrista. Vedi, io volevo pubblicare il mio disco con la Real World di Peter Gabriel, e proprio per questo ero andata a Bath: per partecipare al progetto “Joy”. Ma la Real World non mi ha neanche preso in considerazione, e al Womad non mi hanno mai invitata, chissà mai perché... Ma io devo proprio essere una ragazza fortunata, perché a Bath, nel 1997, ho incontrato Sam. Che mi ha subito presa sotto la sua protezione e mi ha confezionato l’“abito” di questi due dischi, dentro i quali mi riconosco al 100 per cento».

E allora parliamo un po’ di “Love Trap”. La canzone che dà il titolo all’album arriva direttamente dall’Africa...
«Sì, è una canzone etiope degli anni Settanta: la cantava Mahmoud Ahmed, la superstar locale dell’epoca... Ha una melodia sensazionale, un’armonia molto strana, che mi hanno completamente ammaliata - vorrei dire ossessionata... Così sono andata fino in Etiopia a fare un po’ di ricerca sul campo, e ho scoperto un filone musicale enormemente interessante, che vorrei continuare a sviluppare. Fino a farlo diventare un’altra parte di me, delle mie radici...».

Che, in questo disco, sono davvero potenti e profonde...
«Mi fa davvero piacere che lo si senta! C’è per esempio “Sakhi Maro”, che ho imparato dalla mia maestra Shruti Sadolikar: è una canzone scritta da Meera Bai, una mistica del sedicesimo secolo, che canta il suo amore per Krishna. E poi c’è “Ye Meera Divanapan Hai”, che pare una canzone sacra ma non lo è: è tratta dalla colonna sonora di “Yehudi”, un film hindi del 1960, e me la cantavano sempre i miei genitori quando ero bambina. E poi c’è “Blue Lily Red Lotus”, una canzone del decimo secolo, che a dispetto del titolo in inglese è cantata in tamul: la mia lingua materna. E poi, ancora, c’è “Amba”, che parla di meditazione sul nome di Shiva...».

Anche tu mediti, Susheela?
«Ora non più. Ho meditato molto in passato, e ho anche fatto un po’ di yoga... ma ora sono troppo occupata per impegnarmi seriamente nella meditazione. Mi limito a fare un po’ di capoeira, tanto per divertirmi...».

Ma hai un guru personale?
«Se ho un guru? Oh, yeah... myself!».

  Di Roberto Gatti

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