(il cognome è sconosciuto), il Vietnam dal bassista Mao (idem come sopra), la Guinea Bissau dal percussionista Djanuno Dabo, l’India dallo strepitoso tablista Aref Durvesh. E poi, ovviamente, c’è l’Inghilterra: nelle vesti del chitarrista Sam Mills, produttore e compagno di vita e d’avventura della splendente Susheela. Che, dal canto suo, esibisce un sorriso a 32 denti e una felicità che si taglia con il coltello. E lo dice a chiare lettere: «I’m extremely happy to be here!», esclama scandendo per bene l’avverbio, quando gli applausi le danno un po’ di tregua. E poi inizia a cantare.
Gran bel concerto, non c’è che dire: anche se un pochino discontinuo e disomogeneo. Perché Susheela, in una sorta di ricerca dell’unità, tenta saggiamente di mettere d’accordo l’anima con il corpo. Affida la prima, soprattutto, a canzoni della tradizione carnatica, ricche di secoli e di gloria, e il secondo a un repertorio più recente, a volte prodotto in proprio. Ma proprio da qui nascono gli sbalzi di tensione. Perché queste canzoni “laiche”, seppur molto intense e ben costruite, non riescono assolutamente a reggere il confronto - per fascino, profondità, sensualità sottile - con quelle “sacre”, che devono la loro fulgida bellezza alla straordinaria ricchezza interiore di chi le ha composte. E solo il tempo ci dirà se sarà possibile trovare una mediazione, fra le une e le altre.
Comunque Susheela Raman è una vocalist superba, non a caso premiata quest’anno dalla BBC 3 come miglior esordiente nella categoria World Music. E il giorno dopo, davanti alle placide acque del lago di Ginevra, accetta con piacere di raccontarsi...
Allora
Susheela, cominciamo dalle origini...
«Va bene. Sono nata a Londra, ma i miei genitori sono di Madras, la capitale del Tamil Nadu, India del sud-est. Molti miei parenti abitano ancora da quelle parti, però, per uno strano gioco del destino, io sono cresciuta in Australia. Ed è forse questo strano miscuglio di terre e di influenze quel che dà alla mia musica un carattere alquanto cosmopolita: un po’ di Inghilterra, una spruzzatina di Sidney (che è completamente diversa da Londra), una robusta dose di India meridionale... Agitare per bene, e il gioco è fatto!».
Già. Ma gira voce che il tuo rapporto con le “radici” non sia stato sempre idilliaco, vero?
«Proprio così: la crisi - come quasi sempre avviene - è coincisa con il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Allora mi è venuto davvero il disgusto per la musica della tradizione indiana: ho cominciato a rifiutarla quasi con rabbia, mi sono tuffata nel funky, nel pop, nel rhythm ‘n’ blues: Billie Holiday, Robert Johnson, Aretha Franklin, Chaka Khan, il Miles Davis elettrico... Ero selvaggia, aggressiva in una maniera spaventosa... Gettavo tutte queste mie frustrazioni nella musica che facevo: a Sidney, nei bar più “caldi” della metropoli australiana...».
Finchè, a un certo punto, sei diventata completamente afona...
«Già, è quello è stato un momento davvero tremendo! Un cantante senza la voce è come un centometrista senza polpacci: una cosa senza senso! Ma quella “menomazione” è stata anche mooolto positiva. Mi ha fatto capire che non potevo proprio continuare in quella maniera lì...»
E così, nel 1995, sei ritornata in India...
«Già, quello è stato il vero punto di svolta della mia vita - almeno fino ad oggi, è ovvio. Vedi, grazie a mia madre - che ha una voce straordinaria, pur non essendo mai diventata una cantante professionista - io sono cresciuta nel pieno rispetto della tradizione indiana: nell’intenzione (e nella voglia) di preservarne l’integrità e l’identità. Tant’è vero che fino a 14 anni non ho ascoltato altro che musica carnatica, la musica classica dell’India del sud. Mia madre mi svegliava molto presto, la mattina, e insieme intonavamo canzoni tradizionali, musiche religiose, inni devozionali. Ecco, dopo la “parentesi australiana” - molto dolorosa, ma anche molto istruttiva - sono ritornata a fare quel che ho sempre fatto: con enorme gioia e profonda partecipazione».
Hai studiato con qualcuno, in particolare?
«Oh sì, ho studiato con due insegnanti straordinarie: Shruti Sadolikar e Aruna Sairam. Shruti è una delle più grandi cantanti hindustane, una vera autorità nel repertorio dell’India del Nord; e Aruna è la sua omologa, per quel che riguarda il versante carnatico del Sud. Così, dopo un bel po’ di tirocinio, la voce mi è “miracolosamente” tornata! Ma non era la mia voce di prima, molto rock e aggressiva. Era una voce completamente diversa, molto più dolce, rotonda e grave allo stesso tempo. Un altro miracolo...».
E’ vero. E proprio con questa voce hai dato vita ai tuoi due dischi solisti: “Salt Rain” del 2001 e questo recentissimo “Love Trap”.
«Già, e per questo devo pubblicamente ringraziare Sam Mills, il mio produttore e chitarrista. Vedi, io volevo pubblicare il mio disco con la Real World di Peter Gabriel, e proprio per questo ero andata a Bath: per partecipare al progetto “Joy”. Ma la Real World non mi ha neanche preso in considerazione, e al Womad non mi hanno mai invitata, chissà mai perché... Ma io devo proprio essere una ragazza fortunata, perché a Bath, nel 1997, ho incontrato Sam. Che mi ha subito presa sotto la sua protezione e mi ha confezionato l’“abito” di questi due dischi, dentro i quali mi riconosco al 100 per cento».
E allora parliamo un po’ di “Love Trap”. La canzone che dà il titolo all’album arriva direttamente dall’Africa...
«Sì, è una canzone etiope degli anni Settanta: la cantava Mahmoud Ahmed, la superstar locale dell’epoca... Ha una melodia sensazionale, un’armonia molto strana, che mi hanno completamente ammaliata - vorrei dire ossessionata... Così sono andata fino in Etiopia a fare un po’ di ricerca sul campo, e ho scoperto un filone musicale enormemente interessante, che vorrei continuare a sviluppare. Fino a farlo diventare un’altra parte di me, delle mie radici...».
Che, in questo disco, sono davvero potenti e profonde...
«Mi fa davvero piacere che lo si senta! C’è per esempio “Sakhi Maro”, che ho imparato dalla mia maestra Shruti Sadolikar: è una canzone scritta da Meera Bai, una mistica del sedicesimo secolo, che canta il suo amore per Krishna. E poi c’è “Ye Meera Divanapan Hai”, che pare una canzone sacra ma non lo è: è tratta dalla colonna sonora di “Yehudi”, un film hindi del 1960, e me la cantavano sempre i miei genitori quando ero bambina. E poi c’è “Blue Lily Red Lotus”, una canzone del decimo secolo, che a dispetto del titolo in inglese è cantata in tamul: la mia lingua materna. E poi, ancora, c’è “Amba”, che parla di meditazione sul nome di Shiva...».
Anche tu mediti, Susheela?
«Ora non più. Ho meditato molto in passato, e ho anche fatto un po’ di yoga... ma ora sono troppo occupata per impegnarmi seriamente nella meditazione. Mi limito a fare un po’ di capoeira, tanto per divertirmi...».
Ma hai un guru personale?
«Se ho un guru? Oh, yeah... myself!».
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