L'aspetto inconsueto dell'intera vicenda sta invece altrove: nel
fatto che questo legittimo pretendente al trono non è nato ad Harlem o a Watts, o in un qualsiasi altro ghetto di una
megalopoli statunitense. E' venuto al mondo - primo di otto figli
di una famiglia poverissima - in quel di Candeal Pequeno, stato di
Bahia, nel profondo nord-est del Brasile. E all'anagrafe della sua
città è stato registrato, verso la metà degli anni Sessanta
(non si può mai essere molto precisi, in casi come questo), con
il nome di Antonio Carlos Santos Freita. Quanto di più brasiliano
si possa immaginare, come si vede.
Solo che Carlos, fin dalla più tenera età, si è sempre fatto
chiamare Carlinhos, più o meno il nostro Carletto. E, appena
adolescente, ha avuto l'avventura di imbattersi nel tornado che
gli avrebbe rivoluzionato l'intera esistenza: la Sex Machine di
Sua Maestà James Brown. Vale a dire quell'inestricabile crogiolo
di sesso e di "soul", di "riff" incandescenti
e di ritmi frenetici, di contorcimenti parossistici del pube e di
splendide donnine seminude, estasiate di fronte a tanto
spettacolo, che il Padrino portava in giro per tutto il mondo,
Brasile compreso. E' stato proprio lì, rapito da questa
dimostrazione tanto sfrontata della bellezza nera - ve la
ricordate la parola d'ordine di quegli anni lontani: "Say it
loud, I'm black and I'm proud"? - che il nostro Carletto ha
deciso di cogliere al volo il tempo e l'occasione. Quella doveva
essere la missione della sua vita. E il suo nome - così banale,
quasi insignificante, nel Brasile dei Caetano Veloso e dei Chico
Buarque de Hollanda - doveva trasformarsi in un ben più
magniloquente Carlinhos Brown.
Detto
e fatto. Tant'è vero che, oggi, Carletto nostro è forse la più
formidabile "sex machine" circolante sulla crosta del
pianeta. Lui sostiene che, in fin dei conti, la ricetta della sua
musica è quanto mai semplice. "Cerco soltanto di creare un
ponte fra il samba brasiliano e il soul nero-americano", dice
amabilmente. "Mettendoci dentro, tanto per rendere più
appetibile il tutto, anche qualche spezia leggermente più
esotica: roba latina, araba e centro-africana, soprattutto. Niente
di più e niente di meno".
Sacrosanto.
Sta di fatto, però, che questa originalissima "sintesi fra
l'Africa e Hollywood", come adora definirla, è un cocktail
ad altissima gradazione alcolica: in grado di far ballare anche
gli astemi e gli storpi. Quando Carlinhos entra in scena,
generalmente vestito di una lunghissima palandrana viola (il
colore che ama di più), gli interminabili "dreadlocks"
sormontati da un'altissima corona dorata, si ha come l'impressione
di aver infilato le dita dentro una presa di corrente. L'energia
scorre a fiumi; i manovratori di sassofoni e trombe inanellano
"riff" su "riff", sempre più veloci,
frenetici, indemoniati; i percussionisti (tanti, tantissimi)
sembrano posseduti dai sacri "loa" del ritmo; le tre
bellissime coriste - molto sensuali, molto discinte - si
disinteressano completamente dei loro microfoni, per scatenarsi in
un'impressionante serie di danze rituali attorno al corpo
esagitato del Nostro. Che, autentico Re Sole della situazione,
dapprima le lascia sfogare un bel po'; poi, birichino, getta in
pasto al pubblico l'ormai inutile palandrana viola, per rimanere
nudo dalla cintola in su. Pronto a recitare la parte che gli
compete in questa modernissima riedizione del candomblè degli
antenati. Di cui, non a caso, è praticante e officiante.
"E'
molto naturale, e anche molto tradizionale, tutto questo",
sorride il più giovane dei Brown da sotto gli occhialoni da sole,
che gli fasciano una buona metà del viso spigoloso. "E'
gioia di vivere allo stato puro: la stessa che hanno, da sempre, i
nativi di Candeal. Ed è anche un sentitissimo omaggio ai miei
grandi maestri musicali: Caetano Veloso e Joao Bosco, Nando Rey e
Djavan. Ma, soprattutto, Osvaldo Alves da Silva, meglio conosciuto
come Master Pintado do Bongo: il primo che mi ha iniziato ai
misteri delle percussioni, nelle 'street band' del mio paese
natale".
Il
fatto che, fra questi maestri, Carletto non degni di un cenno gli
americani Bill Laswell, Wayne Shorter e Lee Ritenour (con cui ha
collaborato in anni recentissimi), e neppure i Sepultura, cioè i
campioni del rock brasiliano più trash e pulp (per il cui l'album
"Roots" ha composto tre canzoni), non è un segno di
arroganza. Il fatto è che, con loro, è entrato in contatto da
pari a pari: quando era già notevolmente affermato, nonostante
non avesse ancora inciso il primo disco a suo nome, lo strepitoso
"Alfagamabetizado". Lui sorride di nuovo quando glielo
facciamo presente, poi lascia chiaramente intendere che trattasi
di acqua passata. E' un Grande, ormai. Forse non come il Padrino
dei suoi sogni giovanili, ma ben poco ci manca. E il tempo è
tutto dalla sua parte.
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