maniera più idonea (a loro insindacabile parere), e di formalizzare il tutto dentro un cofanetto di due cidì, per una collana giustamente battezzata "Rarum". Il primo a scendere in campo - e non sarebbe potuto essere diversamente, vista la sua più che trentennale militanza con la Ecm - è il grande pianista Keith Jarrett. Che, per l'occasione, ha scelto il meglio della sua musica eseguita in trio (quello ormai leggendario, con Gary Peacock e Jack De Johnette), oppure in quartetto (il Belonging, con Jan Garbarek, Palle Danielsson e Jon Christensen), oppure ancora, ovviamente, in perfetta solitudine (andando per esempio a ripescare un estratto del concerto di Monaco del 1981, mai pubblicato in precedenza su cidì). Come ci spiega lo stesso Jarrett nelle note di presentazione accluse, lo spirito del disco è quello di "dirigere l'ascoltatore verso registrazioni che sono state apprezzate meno di quanto avrebbero meritato, o che sono sfuggite ad attenzioni recenti". Obiettivo centrato in pieno, non c'è che dire.
Certo che uno come Keith Jarrett non poteva che nascere in quel giorno lì, l'8 maggio del 1945: il Victory Day d'America, giornata di festa nazionale, celebrazione solenne della fine della guerra con la Germania. E non poteva non avere le stelle dalla sua, il Sole in Toro e tutti i pianeti maggiori nell'Ariete: come dire la forza, la tenacia, l'irruenza e la costanza elevate alla quinta. Che poi sia nato - primogenito di cinque figli concepiti da Daniel e Irma Jarrett - ad Allentown, Pennsylvania, piuttosto che ad Albuquerque, New Mexico, non ha molta rilevanza. In queste faccende non contano tanto i luoghi, quanto i tempi e le congiunzioni astrali. E questa semplice considerazione, più di tante altre inutili elucubrazioni, ci aiuta forse a dirimere alcune contraddizioni apparenti.
Per esempio, noi ascoltiamo il suo tocco sublime sui tasti del pianoforte grancoda Steinway (sempre quello, nient'altro che quello), e magari ci immaginiamo un Jarrett soave, etereo, da sempre pacificato con se stesso e con il mondo. E invece lui è pronto a sottolineare quanta sofferenza e quanta fatica, anche fisica, stiano alla base del suo mondo creativo: "Sono andato a New York e ho fatto la fame per cinque mesi, stando seduto a casa con le mani in mano e suonando la batteria". Noi magari diamo retta alle bestialità di un qualche critico, generalmente americano, che cerca di convincerci in tutti i modi possibili quanto Jarrett - e in special modo il suo leggendario "Köln Concert" del 24 gennaio 1975 - sia essenzialmente, intrinsecamente, New Age, e lui di rimando ci fa sapere: "La musica New Age, qualsiasi cosa essa sia, rappresenta l'esatto contrario delle ragioni per cui suono. Non bastasse, dentro di lei non c'è alcuna ferocia". E non importa poi molto sapere che "ferocia", nel lessico di Jarrett, è solo un sinonimo alquanto enfatizzato di "intensità". I termini contano, eccome: possiedono significato, tensione, energia interna. Soprattutto se, per precisare meglio il concetto, alla "ferocia" Jarrett è pronto ad abbinare l'"impossibilità di sottrarsi alla lotta", e a riportare entrambe alla "gioia della creatività". Interessante, non è vero?
Questa sorta di equazione elementare - Ferocia + Lotta = Gioia Creativa - è, da sempre, una costante della sua vita. Lui ci tiene a farci sapere di essere cresciuto in simbiosi con il pianoforte: "Ne ho imparato il linguaggio mentre cominciavo a parlare". E di essere stato un vero e proprio "bambino prodigio", in grado di compore la sua prima partitura a tre anni d'età e di improvvisare dal vivo, due anni dopo, nel famoso programma televisivo "Paul Whiteman Tv Teen Club", condotto dal celebre direttore d'orchestra Paul Whiteman per scovare nuovi talenti in erba in giro per gli States. Ci sono un paio di foto in bianco e nero che lo testimoniano, nella bella biografia scritta dieci anni fa dal jazzista scozzese Ian Carr, il fondatore dei Nucleus, e pubblicata in Italia da Arcana. E c'è, anche, la lettera che Paul Whiteman scrisse di suo pugno a Jarrett senior, contenente le motivazioni del premio - ovviamente il primo - asegnato a suo figlio: "Siamo stati molto lieti di avere Keith nel nostro programma, e pensiamo che sia un bambino eccezionalmente dotato. Tanti auguri per il suo grande futuro".
Parole profetiche, o quasi, che certo si sono indelebilmente impresse nella psiche straordinariamente intuitiva del piccolo Keith, e l'hanno accompagnato per tutto il resto della vita. Per esempio nel modo di intendere l'esistenza quotidiana: "Non puoi mai essere in una posizione sicura. Non raggiungi mai un punto in cui tutto è portato a compimento. Devi scegliere tra l'essere sicuro come un pietra oppure insicuro, ma in grado di scorrere". Oppure in quello di concepire il suo ruolo d'artista: "Credo che un vero artista debba essere innanzi tutto consapevole dell'impossibilità del suo compito, e nonostante questo continuare a svolgerlo". Oppure ancora, a mo' di corollario della considerazione precedente: "Un musicista può credere alle note che escono, oppure può credere ai sentimenti che penetrano nelle note che escono: ma non può credere a entrambe nello stesso momento, perché si tratta di cose totalmente diverse". Oppure ancora, dulcis in fundo, nella maniera alquanto "esoterica" di intendere la comunicazione: "Per me la comunicazione normale è comunicazione mistica. Non essendo possibile descrivere la comunicazione che si instaura efficacemente tra i membri di una band, potremmo definirla come mistica".
Questi autentici aforismi sono parte integrante della personalità di Jarrett: forse, sono solo la sfaccettatura più evidente dell'enorme tesoro di talenti e sapienza che Madre Natura gli ha così generosamente donato. Oppure, forse, sono il frutto prelibato della sua frequentazione del pensiero di George Ivanovitch Gurdjieff, il maestro spirituale greco-armeno casualmente "scoperto" verso la metà degli anni Settanta, che ora ricorda così: "Non so proprio cosa pensassi prima di quel giorno, ma da quel momento in poi fui progressivamente coinvolto in un processo che mi conduceva a livelli sempre più profondi, da Gurdjieff fino al Sufismo. E poi, da questo alla consapevolezza piena e totale del mio lavoro". Sia quel che sia, non può dunque sorprendere che Jarrett sia oggi diventato quel che è diventato. Il più geniale e venerato dei pianisti jazz - e non solo jazz. Una stella di primissima grandezza, seconda soltanto - forse - ad Arturo Benedetti Michelangeli.
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