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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

paul simon
il Concerto di Milano

 

"Non sono un "entertainer", e, quando canto, voglio solo esprimere la mia anima". Sta tutto racchiuso in questa frase, essenziale e profonda come un antico aforisma, il senso del concerto tenuto da Paul Simon la sera di sabato 28 ottobre, al PalaVobis

di Milano. Ma, forse, anche il termine "concerto" è tutto da rivedere e ripensare. Perché, più che altro, il suo è stato una carezza, un soffio dello spirito, un abbraccio trepido e delicatissimo al tempo stesso. Denso di sublime "understatement" e privo di qualsiasi enfasi. Pieno zeppo, in compenso, di colori sfolgoranti e ultra-solari, i gialli che si trasformano in arancioni, i verdi in rossi tenui, e questi in blu sfolgoranti e luminosissimi, tali e quali a quelli che - dicono i bene informati - troneggiano in Paradiso. E zeppo anche - e soprattutto - di suoni stupefacenti e altrettanto solari, prodotti da una band che sembra "il resto del mondo", tanto è multirazziale e incredibilmente versatile, abilissima nell'affrontare ritmi e melodie di ogni angolo del globo. Una band con undici volti ma praticamente senza nomi, a parte quello del veterano Steve Gadd alle percussioni: perché il comunicato ufficiale non li esplicita, e non certo per dimenticanza o, peggio ancora, per tracotanza. Ma, essenzialmente, perché così vuole la già ricordata legge dell'"understatement", tanto cara a Paul Simon. Che ne è, ovviamente, il prim'attore e il protagonista indiscusso.

Già non aveva il "physique du rôle" della rockstar quando aveva iniziato a cantare, Simon, all'incirca quarant'anni fa.
Ma ora, a sessant'anni quasi scoccati, il nostro Piccolo Grande Uomo pare tutto - nell'ordine: un tranquillo pensionato, il giardiniere della porta accanto, il libraio del "bookstore" all'angolo - piuttosto che un divo della canzone. E' minuscolo e tutto vestito di nero, e l'unica civetteria che si concede è quel buffo cappellino rosso da giocatore di baseball, che indossa più che altro per nascondere la calvizie alquanto incipiente. Ma quando la parola cessa di essere parlata (ben poche cose, in verità: più che altro la grande emozione di essere di nuovo sul palcoscenico, un luogo che lui non ama a dismisura) per diventare stupendamente cantata, ecco che il miracolo si compie di nuovo.
E tutti coloro che hanno orecchie per intendere - di sicuro i tremila accorsi sabato sera al PalaVobis - immediatamente comprendono di avere a che fare con uno dei massimi interpreti della canzone americana contemporanea. Forse, addirittura, con uno dei componenti della "santissima trinità", insieme a Bob Dylan e a Tom Waits.

Nelle sue canzoni c'è, infatti, l'America sussurrata degli amanti perduti, il sogno esistenziale degli adolescenti ancora ben provvisti del senso della vita, la ninna nanna canticchiata agli infanti nelle serate di luna piena.
E poi c'è l'Africa nera scoperta ai tempi di "Graceland", la sarabanda di ritmi e colori delle lande brasiliane, l'afrore della giungla e il calore dei Tropici. E poi, ancora, c'è la sua voce, che adesso non azzarda più gli arditissimi falsetti dei tempi lontani, contrassegnati dalla cooperazione con Art Garfunkel, ma è diventata una sorta di icona pacata e tranquilla, pienamente soddisfatta di sè, beata di una beatitudine che è difficile rendere a parole: e forse è meglio così. E poi, ancora e ancora, c'è quel suo senso così meravigliosamente geometrico della costruzione della canzone, complesso eppure così semplice, che certo è il massimo che si possa chiedere a un cantore dei giorni nostri. Ed è proprio per questo che il suo canzoniere - certo non sterminato come quello del suo intimo amico Bob Dylan, ma sicuramente ben nutrito e polposo - rivela una straordinaria unità stilistica, pur nell'estrema diversità fra le creazioni di ieri e quelle di oggi. Ed è per questo che il "suo" pubblico, antico e giovanissimo insieme, canta all'unisono con lui non soltanto gli "evergreen" di sempre, ma anche canzoni nuovissime come "Darling Lorraine". "E questo incredibile entusiasmo mi ha alquanto sorpreso, per non dire commosso", dichiara lui a fine concerto con grande pacatezza, ma con gli occhi ancora lucidi di felicità.

Che altro dire, che non sia già stato detto, del concerto di sabato sera? Forse che il Piccolo Grande Uomo dimostra di essere uno "storyteller" perfetto nel miscelare il vecchio con il nuovo: la saggezza introversa di "That's where I belong" con la sarabanda ritmica di "Graceland", la pulizia interpretativa di "Me and Julio down to the schoolyard" con il turbinìo di "Hurricane eye", il toccante epitaffio di "Old friends" (dedicata più o meno esplicitamente all'ombra sempre più lontana di Garfunkel) con il dramma amoroso, e tragicomico insieme, di "Darling Lorraine". Forse che soltanto lui avrebbe potuto trattare il tema della vecchiaia con l'acutezza e il soave senso del distacco dimostrati in "Old": dove il procedere dell'età del protagonista (e cioè di lui medesimo) viene affrescato in parallelo con quello di Maometto, di Gesù Cristo e dello stesso Dio Creatore. Forse che un autentico "stato di grazia" gli ha consentito di trasformare il suo hit per eccellenza, "Bridge over troubled water", in una ballata lenta e quasi allucinata, sospesa dentro un'ovatta di luce blu.
Un oceano, forse. Il Paradiso, più probabilmente.

  Di Roberto Gatti

English text

email: info@mybestlife.com


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