è possibile se non poggia su fondamenta solide e durature, capaci di resistere all'aggressione del tempo.
E' un vero e proprio
"ritorno al futuro", il suo: in cui la tecnologia del mondo occidentale si pone
al servizio di una sapienza ancestrale, molto spesso (ma non sempre) edificata nel lontano
oriente del pianeta, l'India, il Tibet, la Cina, il Giappone. Avvisaglie di questo tipo
si erano già avute un paio d'anni fa, con le registrazioni di "Il canto del
lama" e "Cho": album in cui gli antichi "mantra" della tradizione
buddhista (cantanti, rispettivamente, da Lama Gyourme e dalla monaca Choying Drolma)
venivano sostenuti, supportati e integrati dall'elettronica moderna, azionata da musicisti
come il francese Jean-Philippe Rykiel e l'americano Steve Tibbetts. Ma, oggi, un progetto
come "Rumi", appena messo su disco dalla Emi Classics, rappresenta un ulteriore
passo in avanti lungo il sentiero. Perché, pur inserendosi a pieno diritto nel filone
appena accennato (però sul versante sufi, la corrente devozionale dell'Islam), non si
accontenta di una voce singola, ma chiama anzi a raccolta una miriade di interpreti
straordinari: il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, l'israeliana Noa, l'americana Lori
Carson, la francese (ma nativa del Camerun) Esther Dobong'na Essiene, il turco Omar Faruk
Tekbilek, l'armeno Djivan Gasparian. E, soprattutto, li costringe a fare i conti con
musiche totalmente nuove: che il neozelandese Graeme Revell e l'australiano Roger Mason
hanno composto ad hoc, stimolati dalla lettura delle poesie d'amore di Mevlana Jalaluddin
Rumi.
Poesie d'amore, abbiamo
detto: ma il termine va inteso nella sua accezione più vasta. Qui, infatti, non abbiamo a
che fare con l'amore mondano, un po' fatuo e transeunte, che continua a ispirare legioni
di cantautori contemporanei, da Bob Dylan giù giù fino a Lucio Dalla. No, l'amore in
questione possiede una sua dignità ben più elevata, spirituale, oseremmo dire sublime.
E' l'amore per l'Inviolato, per l'Ineffabile, per il divino che risiede dentro chiunque di
noi. E' quello riportato in epigrafe nella copertina interna del disco, che fa esclamare a
Rumi: "noi amiamo: proprio per questo la vita è così piena di tanti doni
meravigliosi!".
Per chi non lo sapesse,
Mevlana Jalaluddin Rumi è stato infatti uno straordinario cantore dell'Amore (con la
"a" maiuscola): anzi, "il più grande poeta mistico della storia
dell'umanità", secondo l'illuminato parere del professor Richard Arberry, attento
studioso del sufismo. Nato da nobilissima famiglia a Balkh, Persia, nel 1207, morto nel
1273, si dice che abbia recitato, nel breve volgere di un quarto di secolo, non meno di
70mila versetti: molti dei quali raccolti nel suo capolavoro riconosciuto,
"Masnavî-yi Manarî" (Distici Spirituali), e tutti concepiti "per svelare
ai pellegrini i segreti della Via dell'Unità, per rivelare i Misteri del Sentiero della
Verità Eterna", come annotava il poeta inglese settecentesco Samuel Johnson. E
questo a dispetto del fatto, apparentemente paradossale, che Rumi considerasse la poesia
alla stregua di un "prodotto secondario": mero riflesso di quell'enorme realtà
interiore che chiamiamo amore. Un sentimento che, non mancava mai di ripetere, "è
totalmente silenzioso, e non si può esprimere con le parole".
Ma con la musica sì,
probabilmente. E soprattutto con la danza. Tant'è vero che Rumi è universalmente noto
per aver fondato, verso i quarant'anni d'età, il corpo dei Dervisci Rotanti: vale a dire
quei mistici, vestiti di un'ampia tunica bianca, lunga fino ai piedi, che piroettano
vorticosamente su se stessi, spesso in stato di trance, per raggiungere l'estasi. Aiutati,
in questo, da una musica ipnotica, impalpabile, costantemente uguale a se stessa: che
somiglia da vicino a una preghiera. Perché anche questa - non mancava mai di ricordare
Rumi, straordinario uomo d'azione e d'inazione, rigoroso fino al parossismo e burlone fino
ai limiti della clownerie - "possiede una forma, un suono e una realtà fisica. Tutto
ciò che si può esprimere con una parola possiede un equivalente fisico, e tutti i
pensieri hanno un'azione".
Da questo punto di vista,
"Rumi" (inteso come disco) si muove perfettamente all'unisono con le intuizioni
del suo augusto ispiratore. Che assuma le forme di un "qawwali" o di una moderna
"ballad", di un lamento stile "muezzin" oppure di un rap da discoteca
riminese (c'è anche questo, clamoroso ma vero), la sua dinamica interna ricorda da vicino
l'incedere di una preghiera. E' questa la sua forza immanente. Antica e modernissima al
tempo stesso. |