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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Yungchen Lhamo

 

Vorremmo esprimere un desiderio. Vorremmo che il Tibet balzasse agli onori delle cronache non soltanto per i film, ma anche per la voce, davvero straordinaria, della sua "chanteuse" forse più  famosa: la trentacinquenne Yungchen Lhamo.

Questo desiderio, in realtà, ci stuzzica le corde della fantasia da un paio d'anni almeno. Cioè da quando la deliziosa Yungchen ha realizzato per la Real World di Peter Gabriel un disco a dir poco fantastico, "Tibet Tibet", che mette in fila dieci "devotional songs" realizzate in compagnia dei famosissimi Gyuto Monks di New Delhi: gli stessi monaci, per intenderci, già immortalati in passato da un paio di album, il primo per la giapponese Jvc e il secondo per l'inglese Rykodisc, che sono quanto di meglio si possa ascoltare in tema di canti della tradizione buddista. Proprio loro - se la memoria non ci inganna - sono stati il tramite fondamentale per arrivare fino a Yungchen Lhamo. E proprio lei, adesso, è l'interprete ideale in grado di coniugare l'antico con il moderno: la spiritualità "esoterica" dei monasteri millenari con quella, infinitamente più diffusa, di milioni di semplici "anime salve", tanto per usare la terminologia cara a Fabrizio De Andrè. Per questo, in definitiva, le abbiamo chiesto di poter scambiare quattro chiacchiere.

Per prima cosa, signora Lhamo, ci vuole svelare il significato autentico del suo nome?

"E' molto semplice. In tibetano Yungchen Lhamo vuol dire, letteralmente, "divinità del canto". E' un nome di cui vado molto fiera, e non soltanto per la profonda sacralità del suo significato: ma soprattutto perché mi è stato donato da un Lama di Lhasa che apprezzava moltissimo la mia voce. La riteneva un autentico strumento di guarigione, un po' come possono essere la medicina tradizionale e la filosofia degli antenati".

Crede che avesse ragione?

"Certo. Infatti, il compito che mi è stato assegnato in questa vita è proprio quello di curare la gente attraverso la musica e il canto. Per questo, da sempre, io preferisco cantare da sola, con l'unico accompagnamento di uno strumento a corde come il "dranyem": una sorta di liuto molto utilizzato nel mio paese".

E' questa la ragione per cui preferisce esibirsi nelle chiese?

"Certo, perché in una chiesa, qualunque sia la religione che vi è praticata, c'è sempre un'atmosfera molto intensa, colma di poderose energie sottili: e tutto questo sviluppa il senso di partecipazione di chi ascolta. Ma ciò non significa che io mi rifiuti di cantare in altri luoghi, molto più mondani e "materiali". Tant'è vero che un paio di volte, in Inghilterra, mi sono esibita anche nei pub, e in Australia perfino in un palazzo dello sport: come supporter - diciamo così - di un gruppo rock che andava per la maggiore".

E anche in quelle occasioni ha cantato le sue "devotional songs"?

Naturalmente. Io so cantare soltanto l'amore incondizionato, il sentimento e la compassione. Canto esclusivamente quel che mi ha insegnato tanti anni fa la mia cara nonna: che è stata la prima persona al mondo ad accorgersi delle potenzialità della mia voce. E sono estremamente felice di poterlo fare: di mettere tutta me stessa - vorrei dire la mia intera vita - al servizio dell'umanità".

E' possibile definire "mantra" le sue canzoni, anche quelle più moderne?

"E' possibile, certo. Alcune di loro, infatti, sono esplicitamente basate sui "mantra" della sacra tradizione buddista, come il celeberrimo "Om Mani Padme Hung". Altre, seppur più recenti e di mia totale composizione, sono ugualmente dedicate alle divinità e ai "Bodhisattvas" della nostra dottrina. Oppure ai precetti del "Dharma", vale a dire il complesso degli insegnamenti che devono guidare la nostra pratica terrena di ogni giorno".

E' vero che per poter svolgere questa sua missione ha dovuto abbandonare il Tibet, per trovare rifugio in India?

"Vero. Avevo 25 anni, ed è stata un'esperienza molto dura e impegnativa. Per sfuggire alle persecuzioni dei cinesi, ho dovuto attraversare a piedi l'Himalaya. Come tantissimi altri miei compatrioti, del resto...".

Ma dicono che in Tibet, ora, si sta meglio che in passato...

"Non è affatto vero, la situazione è ancora uguale a quella di tanti anni fa. La vita è sempre durissima, la povertà drammatica, la dittatura cinese asfissiante. Ma ci tornerei di corsa, se solo potessi. Perché la mia famiglia e tutti i miei affetti sono là".

E invece dove vive, ora?

"Soprattutto in Australia, un paese molto ospitale e tollerante. Ma, a dire il vero, io mi considero una cittadina del mondo. Perché lo spirito non ha confini".

 

  Di Roberto Gatti

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