Cavalli
nel cielo
Piedi sulla terra
Non ho mai visto
Questa fotografia prima d'ora
Non
fatevi ingannare dall'aria serafica: Philip Glass è un uomo molto
indaffarato. Lo è stato fin da giovinetto: quando, a New York, faceva
il "taxi driver" - notturno, proprio come Robert De Niro nel
film di Martin Scorsese - per sbarcare il lunario così flebilmente
finanziato dalle sue prime opere minimalistiche. E lo è anche ora:
ora che, quasi ricco e quasi molto famoso, e assolutamente certo della
morte per autoconsunzione del minimalismo, tanto amato per tutti gli
anni Settanta e Ottanta, si concede ad alcuni fans selezionatissimi
(che, per pura combinazione, scrivono anche dentro nei giornali:
perchè c'hanno i figli da mantenere, come direbbe l'Enzo Jannacci di
Quelli che...) per presentare i nuovi itinerari della sua mente
prolificissima. Il primo di questi giungerà a compimento la sera del
12 ottobre prossimo: quando, a 500 anni esatti di distanza dalla
"scoperta" dell'America - e scusate la parolaccia -
dirigerà al Metropolitan Theater di New York la "prima" del
suo nuovissimo lavoro, The voyage.
"Un'opera
sul viaggio di Cristoforo Colombo di carattere assolutamente
non-storico", racconta il Maestro: "perchè sono dell'idea
che un teatro è il luogo meno adatto per apprendere la storia
dell'umanità. Un'opera - vorrei dire - di carattere quasi
fantascientifico. E non solo perchè, nel secondo atto, Colombo è in
prigione, a meditare sulla sua sorte. Ma perchè, soprattutto, The
voyage è una sorta di riflessione sull'idea stessa del viaggio, e su
quel che i viaggi rappresentano per le scoperte dell'umanità. Per
farle un esempio, il prologo dell'opera tratteggia la figura di uno
scienziato - Steven Hawking - capace di sfidare i limiti dell'universo
senza mai muoversi dalla sua sedia a rotelle. Lo può fare perchè,
molto spesso, le grandi avventure hanno luogo proprio qui, nel
fantastico della nostra immaginazione: e una riflessione di questo
tipo vale anche per Colombo. Lui - ne sono certo - aveva perfettamente
in mente quel che voleva fare - e anche quel che non voleva fare. E
sta proprio qui, nella potenza della mente, la grande forza dell'uomo.
Parliamoci chiaro: il fragore delle armi, l'imponenza degli eserciti,
l'esistenza degli stessi dittatori, non sono per nulla importanti. E'
vero: possono provocare enormi guai, possono creare immani sofferenze.
Ma il vero progresso - se di progresso è ancora lecito parlare -
l'evoluzione di noi, di una razza, dell'intera specie umana, viene
determinato soltanto dalle modalità di sviluppo della nostra mente. E
la pièce che ho scritto su Colombo affronta proprio queste modalità:
la motivazione profonda che ci fa lasciare ciò che ci è familiare,
per andare incontro a qualcosa di completamente sconosciuto. Da un
punto di vista della dinamica psicologica, tutto questo non differisce
per nulla dalle prospettive di chi abbandona un piccolo villaggio del
Montana per recarsi a New York. Sarebbe potuto rimanere dove stava,
tranquillamente, con la mamma e la famiglia, e invece decide di
recarsi altrove, in un luogo misterioso e sconosciuto - almeno per
lui. La prospettiva mi pare interessante. Perchè, senza questo tipo
di persone, probabilmente vivremmo ancora sugli alberi".
Ma
The Voyage, in fin dei conti, fa parte dei "doveri
istituzionali" di Philip Glass: che gli impongono, di quando in
quando, di scrivere un'opera, meglio se su commissione. E dunque,
ritornando al tema dell'indaffaratezza, e anche a quello delle
svariatissime maniere con cui ciascuno di noi utilizza il tempo di
lavoro a sua disposizione, ci pare ancor più interessante il secondo
itinerario della mente sfaccettatissima del Maestro: quello che,
qualche mese fa, l'ha portato a costituire una nuovissima etichetta
discografica, la Point Music: arguta coproduzione fra la Euphorbia
Ltd. (fondata e diretta da lui stesso, oltre che dai suoi fidi
collaboratori Kurt Munkacsi e Rory Johnston) e la Philips Classics
Production. Glass pare assolutamente entusiasta del presente (e del
futuro) della sua giovanissima creatura. Infatti, quasi senza bisogno
di chiederglielo esplicitamente, inizia a parlare.
"In
termini burocratici, l'avventura è cominciata circa tre anni fa. Ma,
in termini reali, questo rappresenta solo l'epilogo di un processo
inziato - se ricordo bene - più di vent'anni fa: quando, con mia
grandissima sorpresa, scoprii che per questo tipo di musica, molto
trasversale, molto modernistica, esisteva un pubblico incredibilmente
vasto e interessato. Era il pubblico che frequentava abitualmente la
Galleria Attica di Fabio Sargentini, a Roma - non so se la ricorda.
Era il pubblico che cominciava a stancarsi del 'modernismo
tradizionale d'avanguardia', e che invece vedeva di buon occhio quel
che Michael Riesman ed io proponevamo. L'idea, in fin dei conti, era
molto semplice: si trattava di utilizzare al meglio tutta la nuova
tecnologia a nostra disposizione - ed era tanta, gliel'assicuro. Per
farla breve, nel giro di vent'anni io e i miei collaboratori, primo
fra tutti Kurt Munkacsi, ci siamo ritrovati in una situazione ideale:
avevamo sempre più tecnologia, avevamo un eccellente studio di
registrazione a New York, avevamo una conoscenza assolutamente
approfondita del pubblico - sempre più vasto - che seguiva i nostri
lavori. Ci mancava soltanto un'etichetta discografica: ma ora anche
questo dettaglio è stato risolto".
Immagino
che avrà ricevuto decine di nastri, da quando la Point Music è stata
creata...
"Non
decine: centinaia. E li ascolto tutti, perchè il bello di
quest'avventura è che non sono io che cerco la musica: è lei che
cerca me. E proprio in questo modo ho scoperto due compositori che
hanno già inciso per la Point Music: John Moran e i brasiliani Uakti.
Moran, per esempio, che per la mia etichetta ha realizzato The Manson
Family, ha sempre abitato a Lincoln, un piccolo villaggio del
Nebraska. Un giorno, quando lui aveva appena 22 anni (cioè non più
tardi di cinque anni fa), la sorte ha voluto che io passassi proprio
da Lincoln, per tenere un concerto con il mio gruppo. Finito lo
spettacolo, John è venuto a trovarmi nel camerino: per salutarmi e
per farmi ascoltare un demo-tape che aveva appena registrato. Io l'ho
trovato semplicemente favoloso, e così, quando ho fondato la Point
Music, mi sono ricordato di lui. Più o meno la stessa cosa è
successa con gli Uakti, quattro fantastici musicisti di Belo Horizonte
- Marco Antonio Guimares, Paulo Sergio Santos, Artur Andres e Decio de
Souza Ramos - di cui ho appena edito l'album d'esordio, Mapa. Deve
saper che io amo moltissimo il Brasile: 'eu falo portugues', parlo
portoghese, quando trovo qualcuno che mi sta a sentire. Ed ero proprio
in Brasile quando Paul Simon - che era lì per registrare il suo The
rhythm of the saints - venne da me per invitarmi in sala d'incisione.
Io ci andai subito, e lì, ingaggiati per la sezione ritmica, c'erano
anche questi straordinari musicisti: quasi inutile dirle che un anno
più tardi, quando mi sono imbarcato nell'avventura della Point Music,
ho pensato subito a loro. E sono ben contento di averlo fatto".
A
proposito di Brasile: che cosa pensa dei lavori brasiliani di David
Byrne e
Arto Lindsay?
"In
tutta onestà, devo dirle che non mi interessano molto. Ma il mio - me
ne rendo perfettamente conto - è un punto di vista assolutamente
particolare, di una persona che trascorre in Brasile almeno un mese
all'anno, che conosce benissimo la musica di quel paese e che la ama
moltissimo. Quindi il mio parere su Byrne non fa testo: non ne tenga
conto".
D'accordo:
proviamo allora a mettere la cosa in altri termini. Ho come
l'impressione che uno degli obiettivi fondamentali della Point Music
sia quello di ridefinire il concetto di "avanguardia" in
musica. E che l'altro, altrettanto importante, riguardi un modo nuovo
- molto trasversale, molto eterodosso - di introdursi nel filone della
World Music. E' vero?
"Partiamo
dall'avanguardia, che è più facile. Credo che questa sia ormai una
parola morta: morta di morte naturale. Dovremmo lasciarla riposare in
pace, perchè il solo fatto di nominarla, questa benedetta
avanguardia, crea confusione. Per dirla in altri termini, io credo che
molte delle problematiche attorno alle quali ha ruotato la musica del
XX secolo siano state abbondantemente superate: perchè le polemiche e
le ideologie su cui si sono accapigliati, per anni, brillanti critici
e ancor più brillanti compositori nascevano, sostanzialmente, da due
ordini di fattori. Il primo era determinato dalle condizioni sociali
in cui si viveva e dalle guerre che il mondo attraversava; il secondo,
da tutti gli scogli che Richard Wagner aveva lasciato in eredità alla
musica del XIX secolo: come i problemi di tonalità, poi utilizzati
dalla musica dodecafonica come mezzi per il suo sviluppo. Bene, se lei
prova - oggi - ad accennare tutte queste faccende ai giovani
compositori contemporanei, quelli che hanno già un piede - o forse
tutti e due - nel XXI secolo, li troverà completamente indifferenti:
perchè hanno un approccio totalmente diverso alla musica, molto più
aperto, molto più estroverso. Non hanno le isterie e le ideologie che
hanno ammorbato tanti compositori della mia generazione; soprattutto,
hanno accettato l'idea che la musica occidentale rappresenta soltanto
'una' delle tradizioni possibili: e non 'la' tradizione per
antonomasia, come succedeva a noi. Mi ricordo bene - sa - quel che mi
succedeva da ragazzino, ai miei primi approcci con le note: la Musica,
allora, era rappresentata da Palestrina, Monteverdi, Bach, Mozart,
Beethoven e Wagner. E nessun altro, perchè l'educazione che
ricevevamo era molto limitata. Poi, come se non bastasse, non avevo
alcuna familiarità con la tecnologia, perchè lo Strumento con la
'esse' maiuscola su cui applicarsi era il pianorte: e quindi ho dovuto
sudare le proverbiali sette camicie per avvicinarmi ai sintetizzatori
e ai sequencer. Guardi invece l'enorme tranquillità con cui questi
giovani compositori - soprattutto quelli 'non accademici', e sono la
stragrande maggioranza - gestiscono le nuove tecnologie: non hanno
alcuna paura di loro: non le avvertono come una minaccia: le usano in
una maniera totalmente rilassata e naturale. Dunque, per tornare alla
sua domanda, credo che il modo migliore per definire la musica
contenuta nei dischi della Point Music giri attorno al concetto di
'post-modern'. Con tutti i rischi che una definizione del genere
comporta, ovviamente".
Veniamo
alla World Music: in che maniera può coesistere il post-modernismo di
cui ha appena parlato con l'etnicità così implicita, per esempio, in
Mapa, il lavoro di Uakti?
"Non
lo so, e non lo voglio neppure sapere. E sa perchè? Perchè credo che
questo sia un tempo in cui molte cose stanno per essere ridefinite, e
noi stessi ci troviamo nel bel mezzo di questa ridefinizione. Sono
momenti molto interessanti quelli che stiamo vivendo, perchè,
finalmente, le lotte intraprese dai musicisti della mia generazione
stanno cominciando a dare i loro frutti. Io c'ho messo quasi vent'anni
- vent'anni della mia vita - per essere considerato: per essere
accolto con piena parità di diritti nel mondo della 'Musica Vera'.
Non sorrida, non sto esagerando. Lei forse non lo ricorda, ma agli
inizi degli anni Settanta gli 'accademici' dicevano di noi che non
eravamo in grado di scrivere neppure una nota, che non avevamo
frequentato il Conservatorio - e io l'ho frequentato per almeno
vent'anni. E dicevano anche che eravamo dei drogati, dei fottutissimi
hippy, e che la nostra era solo 'joint music', musica fatta apposta
per le canne e gli spinelli. Tutto falso, ovviamente: tutto inventato
ad arte per diffamare alcune persone - Steve Reich, Terry Riley,
LaMonte Young, il sottoscritto - che cercavano soltanto di cambiare il
corso della musica esistente: un corso molto asfittico, ristretto e
scheletrico, come le dicevo. E dunque, per tornare in argomento, io
non so bene se la musica che stiamo facendo avrà diritto di
cittadinanza nell'alveo della World Music. Quel che so è che è una
musica molto interessante. E tanto mi basta".
D'accordo,
ma l'aggancio alla World Music non intendeva avere alcun carattere
classificatorio. Voleva semplicemente introdurre un altro argomento di
conversazione: il disco - The screen - che lei ha appena realizzato
per la sua etichetta. Un disco particolarissimo: perchè, da una
parte, si avvale del libretto dell'ultima opera teatrale di Jean
Genet, scritta nel lontanissimo 1959. E, dall'altra, utilizza un
"vocalist" tanto straordinario quanto "deviante"
come Foday Musa Suso: il "griot mandingo" di Sarre Hamadi,
Gambia.
"Già,
Musa Suso... L'ho incontrato nel 1986, mentre lavoravo al progetto di
Powaqqatsi, perchè volevo introdurre alcuni elementi di musica
africana nella colonna sonora del film di Godfrey Reggio. E siccome
non la conoscevo molto bene, questa musica, volevo che Foday me la
insegnasse: proprio come, vent'anni prima, Ravi Shankar mi aveva
insegnato i rudimenti fondamentali della musica indiana. Bene, dopo
aver trascorso alcuni mesi con lui, e dopo aver attraversato insieme
un'enorme quantità di stati - il Mali, il Senegal, il Gambia, e
chissà quanti altri - ho cominciato ad apprezzarlo moltissimo.
Perchè Musa Suso è, tutto sommato, un musicista assai tradizionale,
uno capace di raccontare in musica la storia del suo popolo; ma, al
tempo stesso, è anche in grado di capire perfettamente la nostra
musica, avendo lavorato con una quantità enorme di strumentisti
occidentali, da Herbie Hancock al Kronos Quartet. Così, quando Joanne
Akalaitis, la direttrice del Guthrie Theater di Minneapolis (che, tra
l'altro, è stata la mia prima moglie, e anche la persona con cui ho
visto per la prima volta The Screen, a Parigi, nel lontanissimo 1964),
mi ha chiesto di allestire le musiche di scena per la pièce di Genet,
possibilmente in collaborazione con un musicista africano di mio
gradimento, mi sono subito messo in contatto con Foday. Divertente,
no?".
Sicuramente.
Ma mi piacerebbe conoscere la sua opinione sul Kronos Quartet, visto
che l'ha citato in relazione ai lavori di Musa Suso.
"Beh,
gli ultimi lavori del Kronos sono semplicemente favolosi: penso che
abbiano completamente cambiato la nostra concezione del quartetto
d'archi classico - e nel miglior modo possibile. Vede, fino a
pochissimo tempo fa il quartetto d'archi significava semplicemente
Beethoven e Brahms, Schubert, Mozart e Haydn, e tutti i compositori
moderni che li hanno imitati, nel bene e nel male. Ora, grazie al
Kronos (e anche all'Arditti Quartet e al Balanescu Quartet), nel
repertorio 'classico' di una formazione d'archi sono entrati anche
compositori come Jimi Hendrix, Astor Piazzolla, Kevin Volans, e
chissà quanti altri ancora. E poi, non bastasse, quel che mi piace di
loro è il sottile sense of humour. Pensi un po' che qualche mese fa,
per presentare al pubblico il loro concerto, uno di loro, il
violinista David Harrington, ha detto testualmente così: 'Gentili
signore, egregi signori: vi annuncio ufficialmente che tutte le
composizioni che eseguiremo questa sera sono state scritte dopo il
mese di novembre'. Fantastico, non crede?".
Molto
divertente. Ma mi sembra che anche The Manson Family contenga, accanto
al dramma dell'assassinio di Sharon Tate e dei suoi amici, molti
elementi di humour: non foss'altro perchè l'opera è stata
commissionata a Moran dal 'Lincoln Center's Serious Fun Festival'...
"Ha
perfettamente ragione. Non a caso la prima opera composta da John
Moran è stata 'Jack Benny', dedicata a un comico totalmente
sconosciuto aldifuori degli Stati Uniti, ma che lì è un'autentica
gloria nazionale: perchè raccontava barzellette esilaranti e suonava
- benissimo - anche il violino. Questo approccio così
mass-mediologico - se mi passa il termine - è tipico di Moran. Egli
prende le sue idee dalla televisione, dai giornali, dai mezzi di
divulgazione popolare: si appropria, insomma, della storia americana
recente così come è stata riciclata e ripresentata a noi dai
mass-media popolari, e poi la rielabora con i suoi mezzi espressivi:
utilizzando attrezzature elettroniche molto, molto 'cheap', del costo
massimo di duemila dollari. Sono marchingegni che qualsiasi ragazzo
può permettersi di acquistare con i suoi risparmi: e questo mi sembra
molto interessante, molto istruttivo, molto didascalico e molto
democratico. Anche per The Manson Family ha fatto così".
Ma
non le sembra curioso che negli Stati Uniti ci sia ora una sorta di
"revival di massa" della figura di Charles Manson? Non le
sembra preoccupante che l'orrenda strage di cui lui e la sua setta si
sono macchiati, nel 1970, diventino il soggetto di un'opera musicale?
"Sarebbe
preoccupante - anzi: tragico e criminale - se nell'opera di Moran ci
fosse una sorta di apologia della figura di Manson. Ma le cose non
stanno propriamente così. Non dimentichi, in primo luogo, che anche
Altenberg ha scritto un'opera su Jack lo Squartatore: ma nessuno si è
mai sognato di accusarlo di apologia di reato. In secondo luogo, è
assolutamente vero che gli americani non sono mai riusciti a
dimenticare Charles Manson, anche se dopo di lui ci sono stati tanti
altri assassini, magari ben più crudeli e sanguinari dell'originale.
Il fatto è che Manson rappresenta il lato oscuro degli anni Sessanta:
è l'esatto contrario dei Beatles, che di quel decennio sintetizzano
il versante più ottimistico e visionario. Manson no. Da un punto di
vista simbolico, è il killer di quel Sogno di pace, di amore e
fratellanza universali, che in quegli anni sembrava così facilmente
raggiungibile. E, da un punto di vista clinico-esistenziale, è
l'esempio più eclatante di quanto fosse sbagliata l'idea corrente di
quei tempi: e cioè che le droghe potevano fare solo del bene,
liberare la mente dai fantasmi e dalle angosce, sviluppare le 'buone
vibrazioni' del corpo e dell'anima. Ora sappiamo che non è così: e
non è un caso che tutti quelli che ebbero l'occasione di conoscere
Manson - e furono tanti, perchè lui lavorava come caratterista a
Hollywood - si sono sempre rifiutati di ammetterlo. Dunque, sono
assolutamente convinto che Moran, nello scrivere The Manson Family,
abbia dimostrato non solo un grandissimo talento: ma anche un
notevolissimo coraggio. Se non altro perchè ha riportato alle sue
dimensioni reali un accidente della nostra esistenza - o del nostro
immaginario onirico, faccia lei - che abbiamo cercato in tutti i modi
di rimuovere. |