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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Joe Jackson
"Night and Day II"

A volte ritornano. A quasi vent’anni di distanza dalla prima apparizione. A volte ritornano e sono anche più emozionanti, toccanti e convincenti di prima. Stiamo ovviamente parlando dei prototipi newyorkesi ritratti dal grande

Joe Jackson in questo suo ultimissimo lavoro, logica prosecuzione e complemento del "Night and day" dato alle stampe nell’ormai lontanissimo 1982. Sulla genesi di questo secondo atto, il cantautore di Burton on Trent, Inghilterra, ci racconta la deliziosa favoletta che segue: "Un angioletto mi bisbigliava in un orecchio, mentre un diavoletto mi sussurrava nell’altro. Ma tutti e due mi dicevano che era arrivato il momento di fare qualcosa che parlasse di New York. "Night and day" era solo a metà su New York, presentava più che altro il punto di vista di un nuovo arrivato, più generale. Invece questo "Night and day II" è completamente su New York, racconta storie precise di personaggi singoli con la città sullo sfondo, dal punto di vista di chi ha vissuto nella Big Apple per anni". Fra i cantori di questi "personaggi singoli", almeno tre meritano gli onori della cronaca. Innanzi tutto la fantastica Marianne Faithfull, che interpreta da par suo "Love got lost". Poi la "chanteuse" persiana Sussan Deyhim, straordinaria interprete di "Why". Last but not least, l’ultimissima scoperta di Mr. Jackson: la "drag queen" Dale DeVere, entusiasmante in "Glamour and pain". E tutto il resto è Joe Jackson allo stato puro: tagliente, sarcastico, deflagrante.

Intervista e recensione del concerto di Milano

Milano. La figura allampanata di Joe Jackson fa la sua comparsa in scena (del teatro Orfeo, stracolmo in ogni ordine di posti, giovedì 25 gennaio) alle 9 precise della sera. Perché lui è abituato alla puntualità, e se sui manifesti c’è scritto che lo spettacolo è alle nove... alle nove in punto deve iniziare. A dispetto di tutti quanti sono abituati al quarto d’ora (o anche alla mezz’ora) di "ritardo accademico", e si affollano davanti alle casse per conquistare i pochissimi biglietti ancora disponibili. Non c’è proprio tempo per aspettarli, dopo un sacco di anni (saranno cinque, o forse anche di più) di lontananza dalle scene italiane, e, soprattutto, dopo aver pubblicato un disco come "Night and day II": prosecuzione logica del volume dato alle stampe nel lontanissimo 1982, e anche questo dedicato ai drammi, alle emozioni, alle isterie e alle paranoie di New York. Vista di giorno ma soprattutto di notte.

A pensarci bene, anche la figura allampanata di mister Jackson ha dentro di sè qualcosa di profondamente newyorkese: scattante, instancabile e nevrile com’è. E, per il resto, pare quasi un burattino senza fili materializzato da un qualche esperto del teatro delle marionette: i fratelli Colla, magari. Infatti si muove di continuo, e i suoi movimenti sono sempre a scatti, e all’estremità delle interminabili gambe indossa calzari che paiono quelli delle sette leghe, e invece, all’estremità opposta, monta una faccia che sembra fatta di gomma, tale e quale a quella sfoggiata agli esordi, una venticinquina d’anni fa, ai tempi del punk più nudo, tagliente e crudo. Solo i capelli sono cambiati, nel senso che ora si sono fatti ancora più radi e completamente bianchi. E solo le gote mostrano evidenti tutti gli acciacchi del tempo che scorre, perché quella morbidissima gomma adesso è solcata da una ragnatela di rughe alquanto profonde, che danno al loro titolare un’espressione ancor più aliena e remota, tipo bambino vecchissimo appena giunto sul pianeta Terra dalla lontana stella Arturo. Ma per il resto... tutto è come prima.

Il ritmo, per esempio. Trascinante, infernale, incandescente. Meravigliosa sintesi fra le percussioni di San Salvador de Bahia e i timbales della salsa & merengue, l’energia sovrumana del punk e le raffinatezze della classica. Che è evocata e costantemente richiamata non soltanto dalla nuova collocazione discografica del nostro Joe (sono ormai quattro gli album pubblicati sotto l’egida della Sony Classical), ma soprattutto dalla presenza, dentro l’orchestra, di strumenti come il violino e il violoncello. Manovrati da due fanciulle di nome Alison (il cognome ci è sfuggito, pardon) e Dorothy Lawson, che magari non saranno avvenenti come quelle sfoggiate a suo tempo dal "tombeur de femmes" Bryan Ferry, ma, in compenso, sono straordinariamente brave. E anche abilissime, pur essendo di nuovissimo ingaggio, a integrarsi con lo straordinario lavoro percussivo della veterana Sue Hadjopoulos e con l’incedere tellurico del basso di Graham Maby, prtner ormai storico di mister Jackson.

E poi, ovviamente, c’è la voce del nostro Joe. Che il trascorrere degli anni non ha per nulla intaccato nella sua rinomata, tagliente precisione, ma ha in compenso arricchito di innumerevoli sfumature, iridescenze, sottigliezze e chiaroscuri. Di modo che, anche quando si avventura a riproporre "song" vecchie di alcuni lustri (per esempio "What you want", "Another world" e "Breaking us in two"), c’è sempre un che di inedito e interessante che svolazza nell’aria. Una sorta di sentimento nuovo, insomma, del tutto identico a quello che gli ha "dettato" la genesi dell’ultimissimo disco. Per dirla con le sue parole originali: "Un angioletto mi bisbigliava in un orecchio, mentre un diavoletto mi sussurrava nell’altro. Ma tutti e due mi dicevano che era arrivato il momento di fare qualcosa che parlasse di New York. "Night and day" era solo a metà su New York, presentava più che altro il punto di vista di un nuovo arrivato, più generale. "Night and day II" è completamente su New York, racconta storie precise di personaggi singoli con la città sullo sfondo, dal punto di vista di chi ha vissuto nella Big Apple per anni. Credo dunque che il secondo capitolo di "Night and day" abbia più humour del primo, e anche più amore per la città, nonostante tutto".

Parole sante. L’amore di cui parla Joe Jackson si è infatti visto e sentito tutto, nel concerto di giovedì sera. Nelle canzoni nuove proposte: "Prelude", "Hell of a town", "Stranger than you", "Glamour and pain", tanto per citarne alcune. E poi nella generosissima offerta - la prima in assoluto, almeno in pubblico, a quel che ci dicono i jacksoniani più rigorosi - di una meravigliosa "song" di un leggendario newyorkese d’adozione: Duke Ellington, omaggiato da Joe (da solo, al pianoforte) con una versione di "Satin doll" a dir poco eccellente. E poi ancora nel modo - molto newyorkese davvero - di rifare uno dei capolavori per antonomasia del David Bowie più straniato e metropolitano, "Heroes": riproposto con un’energia e una sapienza che non avevano proprio nulla da invidiare al modello originale. E peccato soltanto che nella serata milanese non fossero presenti le due Gran Dame ospitate nel disco, Marianne Faithfull e Sussan Deyhim. Ma mister Jackson, da quell’impeccabile interprete che è, le ha sostituite al meglio anche nell canzoni di loro indiscussa proprietà: innervando "Love got lost" e "Why" di una carica drammatica assolutamente esemplare. Brechtiana, oseremmo dire.

  Di Roberto Gatti

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