Che domenica 16 dicembre, nel
suo primo appuntamento milanese (o quasi, visto che il concerto si teneva nella chiesetta di San Guglielmo a Castellazzo di Bollate, a due passi da Villa Arconati, la sede dell'ormai famosissimo, omonimo festival), ha presentato una "chanteuse" straordinariamente interessante e particolare: la trentenne monaca nepalese Ani Choying Drolma. La stessa che si può ascoltare nei dischi "Chö" (Hannibal Records, in compagnia del grande chitarrista americano Steve Tibbetts) e "Dancing Dakini" (Shift Music, con il cantante e chitarrista Sina Vodjani), e che già doveva essere presente alla rassegna dello scorso anno: ma poi problemi (molto pratici) di trasferimento dal Nepal natio alle brume milanesi, convinsero lei, e gli organizzatori, a procrastinare di dodici mesi esatti la sua calata da queste parti.
Ma ora Ani è qui, ed è un enorme piacere vederla. Indossa il mantello rosso cupo dei monaci buddhisti; ha i capelli - nerissimi - rasati a zero; fra le mani, avvolto in un drappo dorato, regge il "libro" tradizionale delle preghiere (che più che un vero e proprio volume, almeno come lo intendiamo noi in occidente, è un'enorme pila di fogli lunghi e stretti, rigorosamente vergati a mano); sulla bocca ha stampato un sorriso di una dolcezza a dir poco sublime, che mette pace e allegria al solo vederlo. Dice che è davvero lieta di essere qui, e poi si informa se qualcuno fra il pubblico ha già avuto modo di ascoltare il canto dei monaci tibetani: "ma non l'"overtone chant" sui timbri molto gravi e bassi, che io nono sono capace di fare: proprio il canto melodioso della tradizione contemplativa". E al primo cenno d'assenso, inizia subito a parlare. Ed è un fiume in piena che nessuno riesce a fermare, perché Ani non è soltanto una "vocalist" etremamente interessante, con più di quindic'anni di apprendistato canoro presso il monastero nepalese di Nagi Gompa: è anche un'efficacissima didatta e divulgatrice, assolutamente convinta che la comunicazione abbia la stessa rilevanza del canto, se non, addirittura, superiore.
Dice dunque Ani, in un inglese fluentissimo: "Per tradizione, la formazione scolastica femminile è ancor oggi trascurata in Asia. I ruoli femminili sono sempre stati rigidamente incasellati, e le monache, come le laiche, hanno sempre sofferto di questa discriminazione. Molte monache, specialmente quelle che vivono nelle zone più remote, arrivano al Buddhismo con poca o nessuna preparazione scolastica. Con il loro ingresso nel monastero ricevono un'istruzione religiosa, imparano a leggere e a ripetere i testi tibetani, anche se molte di loro non sanno neppure scrivere il loro nome correttamente. Noi monache desideriamo cimentarci in compiti relativi ai "bodhisattva", a come aiutare il nostro prossimo, ma spesso non abbiamo le opportunità e i mezzi per poterci esprimere". Poi prende un po' di fiato, e continua: "Io sono stata fortunata perché ho avuto come istruttore iniziale il guru Tulku Urgyen Rinpoche, un grande maestro che credeva che tutti gli esseri umani - uomini e donne - sono ugualmente capaci di aprirsi all'Illuminazione. Con la sua benedizione, ho preso coscienza dei problemi ai quali ho fatto voto di servire: mancanza di educazione di base, di norme di igiene e di vita. Le donne sono riconosciute per la loro natura benevola, e le monache sono donne che hanno fatto voto di usare la loro innata saggezza femminile per dare amore e comprensione al prossimo. Molte monache mie compagne hanno un grande desiderio di aiutare il prossimo, ma non hanno l'adeguata istruzione per poterlo fare. Ma io, ancora una volta, sono stata molto fortunata. Riflettendo su questo problema ho avuto una visione: perché non fondare una scuola per monache, per dar loro un'istruzione formale e pratica? Corroborata dalle benedizioni del mio Lama, la mia visione si è ora tramutata in realtà. Così, nel 1998, ho fondato a Kathmandu la "Nuns Welfare Foundation" del Nepal (www.choying.com), un'organizzazione non statale per promuovere la formazione scolastica delle monache con lo scopo di poter aiutare una comunità sempre più vasta. Anche per questo, ora, sono qui: in veste di ambasciatrice viaggiante".
Prende ancora un attimo di fiato, Ani Choying Drolma, e poi inizia a cantare. Da sola, accompagnandosi soltanto con una campana e un tamburello. E non per tutta la giornata, come sempre accade nei monasteri nepalesi e tibetani, ma per un'ora soltanto: "perché qui in Occidente avete sempre un tal fretta...". Sono melodie dolcissime, sognanti, che paiono arrivare dall'alto dei cieli. Sono salmodie piene di amore e compassione, "concepite appositamente per distruggere l'ego e combattere i "demoni" che dimorano dentro di noi: la rabbia, la gelosia, l'avidità, l'invidia". Sono nenie quasi completamente tratte dal suo primo, meraviglioso album architettato con Steve Tibbetts, che non a caso si chiama "Chö": termine tibetano che significa letteralmente "taglio", e che si configura come un complesso sistema di pratiche contemplative basate sulla conoscenza trascendentale (in lingua: Prajnaparamita), elaborato decine di secoli fa dal "siddha" indiano Padampa Sangye. Così, quando alla fine Ani invita tutti noi a seguirla sulle note di "Om Mani Padme Um", forse il mantra tibetano più famoso, pare quasi che una nuvoletta rosa si adagi sul campanile della chiesetta di San Guglielmo. Una nuvoletta fatta di amore, compassione e impalpabile armonia. Che meraviglia!
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