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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

Elvis Costello con Burt Bacharah
"painted from memory"

«E’ del poeta il fin la meraviglia Chi non sa far stupir, vada alla striglia!», come diceva quel tale, più o meno quattro secoli fa, per dar contro agli ignavi, ai mediocri, ai propugnatori di una beata normalità. E quel tale - il poeta barocco

Giambattista Marino, vivo e vegeto a Napoli (e poi a Roma, Ravenna, Torino e Parigi) fra il 1569  il 1625 - aveva dalla sua soltanto l’intuizione visionaria, e un livore feroce per Gaspare Murtola, a sua volta poeta nonchè segretario del Duca di Napoli. Nient’altro. Infatti, dati i tempi, non poteva certo applicare le sue folgoranti categorie a un qualche campo dello scibile umano che non fosse immediatamente riconducibile all’alterco delle rime, alla possanza delle allitterazioni, alla complessità delle architetture stilistiche.

E se anche ascoltava musica - e sicuramente l’ascoltava, dal momento che la sua "Murtoleide" recava per sottotitolo la specificazione: "fischiate" - di certo non poteva prevedere che, attorno al crepuscolo del millennio, un minuscolo londinese di origine irlandese - tale Declan Patrick McManus - l’avrebbe preso a pretesto per edificare uno degli spettacoli più singolari, e  stupefacenti, di tutto   lo show business della Musica Giovane (categoria forse un po’ balzana, ma che in quegli anni ancora conservava una sua legittima ragion d’essere).

costelbacharac4SM.JPG (9034 byte)Correva dunque l’anno 1986, e il McManus - che da tempo amava farsi chiamare Elvis Costello, avendo preso a prestito il nome da Re Presley e il cognome dalla nonna materna - era già un divo discretamente affermato in campo rockistico: un po’ per le meravigliose canzoni che da più di un decennio andava componendo, un po’ per la dimensione "Fifties style" (occhialoni spessi alla Buddy Holly, abiti oltremodo sgargianti, ciuffo carpiato all’indietro) dentro la quale soleva acquattarsi. Ma per emergere del tutto, ancora gli mancava quel guizzo, a metà strada fra il rigore creativo e la follia stralunata, che sempre caratterizza il genio talentuoso. Ed ecco allora il "coup de foudre" da lungo tempo accarezzato: un tour di tre sere a città, il "Costello Show", totalmente progettato all’ombra di una gigantesca Ruota della Fortuna piazzata nel bel mezzo del palco, con la sua storica band - gli Attractions - schierata a semicerchio tutt’attorno. Una Ruota semplicissima, del tutto identica a quella utilizzata per decenni nell’omonimo show: ma caratterizzata, nei cinquanta e più "spicchi" in cui è suddivisa, non dall’enunciazione di improbabili elettrodomestici graziosamente offerti da un altrettanto improbabile sponsor, bensì dai titoli delle canzoni (famose, semi-sconosciute,  ignote) che Costello e i suoi bardi sono pronti a eseguire. Di modo che uno spettatore qualsiasi via sul palco, fa girare con mano lesta la gigantesca Ruota... e quel che esce, esce. E viene immediatamente trasformato in note roboanti-eclatanti-dirompenti, per la gioia di grandi e piccini.

costelbacharac22.JPG (7399 byte)E’ la scoperta dell’acqua calda, dirà a questo punto lo scettico di turno: e, tutto sommato, è anche vero. Ma, d’altra parte, è altrettanto vero che nessuno, fino allora, aveva arrischiato tanto: neppure il grande Frank Zappa, che pur costruiva i suoi concerti senza il beneficio di alcuna scaletta, e li architettava come un "unicum" indistinto di due ore e passa, senza soluzione di continuità fra una "canzone" e l’altra. Costello invece ci riesce, eccome.E mette definitivamente a tacere tutte le accuse di kitsch che proditoriamente lo accompagnano da quando ha iniziato a calcare le scene del rockismo militante: dapprima ai microfoni di Capitol Radio (grazie ad alcuni "demos" proposti con indubitabile acume dal DJ Charlie Gillett), poi attraverso gli ellepì prodotti dalla Stiff Records, la prima etichetta indipendente londinese. Certo, fa un po’ specie veder accostati, uno di seguito all’altro, il country di "Almost blue" e il pop scintillante di "Imperial bedroom", il fondamentalismo a stelle e strisce di "King of America" e le scorie new wave di "This year’s model". Ma è proprio questo eclettismo estremo, sorretto da una voce agro-dolce che non ha eguali, la chiave di volta dell’intera operazione. E se a queste virtù si aggiunge una capacità di scrittura che, a parere di molti, non brillava così luminosa dai tempi lontani di Lennon-McCartney, allora il cerchio si chiude davvero. E parla nel nome di una "pulsione alla meraviglia" che è, al tempo stesso, mezzo e fine di un’intera parabola artistica.

D’altra parte, sotto quale altra categoria - se non quella dell’eclettismo più tagliente, colto e scintillante - si potrebbe catalogare l’esperimento del 1993: quelle "Juliet letters", compilate in combutta con il Brodsky Quartet, in cui Costello riscrive dalle fondamenta il dramma di Romeo e Giulietta? Lui sostiene che lo spunto gli è stato fornito dalla metodica sistematicità con cui un accademico di Verona risponde da anni alle lettere indirizzate a Giulietta Capuleti, ma, a pensarci bene, sotto c’è ben altro.C’è la voglia di non fossilizzarsi su alcun "genere" precostituito.C’è la sfida di dimostrare a se stesso di essere prolifico come ai vent’anni. C’è, soprattutto, il desiderio di continuare a stupire il mondo intero: questa volta nella sua variante "alta", dopo aver per anni sondato quella "bassa".

costelbacharac23.JPG (6332 byte)E infatti, dopo la parentesi "colta" (e in un qualche modo shakespeariana) delle venti Lettere, ecco il rapidissimo ritorno al passato, o se preferite al futuro.Dapprima con il caleidoscopio di "Kojak variety" (1995), scintillante rilettura di alcuni evergreen di Bob Dylan, Randy Newman, Kinks e Burt Bacharach. Poi con lo sperimentale "Deep dead blue" (1995), forgiato al calor bianco in compagnia di Bill Frisell. Poi ancora con l’obliquo "All this useless beauty" (1996), dove Costello rivede, insieme ai suoi amatissimi Attractions, un bel po’ di canzoni (sue) fino allora terreno incontrastato di pascolo di altri famosissimi interpreti. Infine con il recentissimo "Painted from memory", Premio Tenco 1998, in cui riallaccia il discorso - peraltro mai abbandonato del tutto - con il suo vecchio amico Burt Bacharach: per accreditarsi, questa volta, nei panni del "crooner" senza macchia e senza paura.

E dunque, per ritornare all’origine di queste brevi note: davvero vogliamo riservare a un tipo del genere - un tipo che a 43 anni appena compiuti (il 25 agosto '98, per l’esattezza) ha già toccato con mano l’intera tavolozza dei suoni possibili, e l’ha scomposta e poi ricomposta in mille maniere e diecimila sfumature, tutte quante originalissime - la "striglia" che sempre si abbatte su chi non fa della "meraviglia" la filosofia di un’intera vita artistica? Non scherziamo, per favore! E riserviamo piuttosto ad altri, ai tromboni e ai marpioni innanzi tutto, questa (purtroppo) decadutissima ammenda corporale.

  Di Roberto Gatti

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