"La nuova voce scoperta da Hector Zazou". La voce in questione appartiene a Laurence Revey, la splendida cantante vallesana di Sierre che ha recentemente stregato il pubblico di Montreux con una mirabolante performance. E la notizia contenuta nello "strillo" è, al tempo stesso, assolutamente vera e ancor più fuorviante: come quasi sempre accade negli spot pubblicitari urlati troppo forte. Vera, perché è ormai di pubblico dominio il fatto che il grande compositore-produttore di origine algerina non abbia esitato neppure un attimo a inserire Laurence nell'organigramma di "Lights in the dark", il suo progetto sulle radici della musica sacra irlandese: e proprio in questa veste l'avevamo infatti ascoltata a Milano, un paio d'anni fa, nell'ambito della rassegna "La musica dei cieli". Fuorviante, perché per questo suo primo, meraviglioso lavoro solistico, Laurence ha fatto (quasi) tutto da sè. Con una sicurezza e un controllo dei propri mezzi espressivi a dir poco sbalorditivi, per una "absolute beginner" quale lei, oggettivamente, ancora è.
Già il titolo del disco ci suggerisce che qui ci muoviamo in un luogo fatato, denso di magia e di delicatissimi incantesimi. Che la splendida voce di mademoiselle Revey evoca ricorrendo al "patois", l'antica "langue d'oc" parlata ancor oggi nelle aree franco-provenzali (anche italiane). C'è dunque un incanto tutto ancestrale, nelle tredici melodie di "Le creux des fees": che si muovono armoniosamente da una tradizionalissima "Pastorelle", innervata da trame sonore tanto semplici quanto misteriose, a un "omaggio all'ombra" - "L'Ombre", appunto - che pare la trasposizione sottilmente poetica dell'intera teoria psicanalitica junghiana. Ma c'è anche, contemporaneamente, tutto l'abbraccio della moderna World Music: con i suoi strumenti, i suoi colori, le sue intuizioni, la sua enfasi. E con un approccio "quasi New Age" al materiale sonoro, che Laurence sintetizza così: "Possa la memoria condurci sempre più avanti, e possano i nostri cuori rimanere sempre aperti all'abbandonza. Io non ho mai smesso di sognare".
L'intervista
Laurence, quando è iniziato questo sogno?
"Vorrei dire da sempre, dal giorno in cui sono nata. Ma, per essere un pochino più precisi, da quando ho cominciato a riscoprire il "patois". Io volevo la libertà, e andavo sempre a ricercarla lontano da me, aldilà delle montagne, da qualche altra parte del mondo. Paradossalmente, l'ho invece trovata a casa mia, frugando dentro me stessa, attraverso un'eredità musicale ricchissima, capace di sopravvivere nei secoli. L'ho ritrovata nei simboli della vita pagana che la Chiesa Cattolica non è riuscita a cancellare del tutto. L'ho ritrovata nelle leggende di questa terra: autentici ponti gettati fra passato e futuro, che una natura formidabile ha letteralmente "imposto" all'uomo. Dulcis in fundo, l'ho ritrovata nel linguaggio orale, il "patois", che sembrava irrimediabilmente perduto da un paio di generazioni a questa parte".
Il "patois", appunto. E' stato questo il tramite che ha conquistato l'attenzione di Zazou?
"Penso proprio di sì, perché è notorio che a lui piacciano molto le... "lingue strane". Sta di fatto che un giorno il suo produttore, Jean-Michel Reusser, gli ha fatto avere un mio "demo-tape" cantato in "patois", corredandolo con un paio di paroline del tipo: "Ascolta un po' questo bizzarro dialetto...". Lui l'ha ascoltato, e mi ha subito proposto di entrare nel suo progetto di "Lights in the dark": quello che abbiamo portato anche a Milano, in una splendida chiesa di corso Italia...".
Già, la parrocchia di Santa Eufemia. E come si è trovata a cantare in gaelico?
"Non era gaelico: era "patois"! E proprio questo mi ha convinto di quanto possa essere universale anche una "lingua" del tutto sconosciuta aldifuori delle aree
franco-provenzali. Perché ciò che conta non è certo la comprensione letterale delle singole parole, ma il significato subliminale evocato dal canto".
Lei canta sempre scalza. E' forse un modo per riportare lo sciamanesimo dentro il mondo un po' distratto dell'Occidente iper-tecnologico?
"Non lo so se è davvero così, e questo potrebbe comunque essere un interessante filone di ricerca (sorride amabilmente)... Dal mio punto di vista, il cantare a piedi nudi significa semplicemente ricercare un contatto forte con la terra: perché è straordinariamente importante, almeno per me, avere una base solida su cui ancorarsi. Forse perché sto cominciando a invecchiare (sorride ancora più amabilmente)...".
Anche l'uso che fa del tamburo rotondo in pelle di capra, tipo "bodhrán" e affini, fa parte di questo... come possiamo chiamarlo... "sciamanesimo inconscio"?
"Può darsi, ma anche in questo caso... non so darle una risposta precisa! So soltanto che mi piace moltissimo il suono del tamburo... Mi sembra un cuore pulsante, mi riporta anche questo al ritmo naturale di nostra Madre Terra... Cercherò di capirne di più, lo prometto!".
Laurence, sembra che lei sia alla ricerca di qualcosa...
"E' assolutamente vero. Sto attraversando un periodo di grande transizione... come credo succeda a molti, in questo passaggio di millennio. Sto cercando di affinare il mio istinto, le mie intuizioni, le mie emozioni: e forse, ragionandoci a posteriori, la riscoperta del "patois" mi serve proprio a questo. E il mio istinto mi dice che devo muovermi senza direzioni predeterminate, in maniera molto libera ed eclettica, mettendo assieme anche gli "estremi" apparentemente più inconciliabili. Che ne so, l'Africa e la lirica, le percussioni tribali e il canto celestiale".
E' per questo che recentemente ha remixato cinque brani di "Le creux des fees", con la collaborazione di Transglobal Underground, Mich Gerber, Bugge Wesseltoft, Nils Petter Molvær e Gus Gus?
"E' proprio per questo, certamente. E sono assolutamente convinta che questo mélange fra "arcaicità" e "futurismo" sia perfettamente conciliabile, vorrei dire estremamente armonioso e finanche provvisto di una logica ferrea. Dipende soltanto dalla sensibilità dei musicisti coinvolti nell'operazione, non trova?".
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