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Musica per l'anima

a cura di Roberto Gatti

 

The Chieftains
"tears of stone"
vedi anche la recensione di
"THE WIDE WORLD OVER

 

Metti una sera insolitamente calda - sabato 5 dicembre, per la precisione - al Castello di Dublino, misterioso e altero nella luce fioca delle lampade a olio.
Aggiungi un centinaio di giornalisti provenienti da tutta Europa,

barili di Guinness spumeggiante, vini bianchi, fermi e frizzanti, fatti arrivare dall’Italia per l’occasione. Guarnisci gli ingredienti di cui sopra, già inebrianti di per sè, con la presenza dei Chieftains e dei loro straordinari ospiti - i Corrs e l’ensemble vocale Anuna - convocati appositamente per celebrare l’avvenimento. Miscuglia il tutto con la ben nota imprevedibilità irlandese, con una passionalità spasmodica e una gioia di vivere senza luogo e senza tempo. Otterrai così il leit-motiv di un concerto a dir poco irripetibile, architettato ad arte per presentare a una ristrettissima cerchia di fortunati il nuovissimo album di Paddy Moloney & compagni: "Tears of stone"   in uscita contemporanea in tutti i paesi del globo verso la fine di gennaio 1999.
Quasi inutile soffermarsi su questo meraviglioso appuntamento, che probabilmente verrà testimoniato con uno "home video" girato per l’occasione. Molto meglio acchiappare al volo, a notte inoltrata, al bancone del bar dell’hotel Alexander, il "vecchio" Paddy Moloney - 62 anni portati con una baldanza e un entusiasmo a prova di bomba - e carpirgli un po’ di notizie su questa sua nuova avventura con i sodali di sempre: l’ennesima, a partire da quel lontanissimo 1967 quando i Chieftains emisero i loro primo vagiti...

Allora, mister Moloney: proviamo innanzi tutto a chiarire il senso del titolo...

«Certamente. Per realizzare "Santiago", l’album precedente a questo, avevo convocato un meraviglioso suonatore galiziano di cornamusa, Carlos Nuñez. Bene, in un vecchio disco realizzato da Nuñez - non mi chieda il titolo, perché non lo ricordo proprio: sono i guai dell’età... - c’era una bellissima canzone spagnola che si chiamava "Lacrime di pietra". Mi è sembrato un titolo meraviglioso per quel che avevo in mente...».

E che cosa aveva in mente, di grazia?

«Un album interamente dedicato all’amore in tutte le sue sfaccettature, dalla gioia alla tristezza, dalla passione all’odio, dall’estasi mistica all’"inferno" dei sensi. Tutto, insomma, dalla a alla zeta. E interpretato esclusivamente da "vocalist" al femminile, perché penso che il talento interpretativo delle donne contemporanee sia un qualcosa di assolutamente enorme, da diffondere capillarmente in ogni angolo del globo. Tre anni filati ho lavorato su questo progetto, e ora i risultati sono alla portata di tutte le orecchie...».

Ritorniamo per un attimo alle "vocalist", se non le dispiace. Scorrendo l’elenco delle sue ospiti, si ha come l’impressione di avere a che fare con un vero e proprio Gotha della vocalità al femminile: Bonnie Raitt e Natalie Merchant, Joni Mitchell e le tre sorelle Corr, Sinead O’Connor e Mary Carpenter, Loreena McKennitt e Akiko Yano, Sissel e Joan Osborne, le Anuna e Diana Krall... Un’autentica pacchia!

«Già, e nel disco che le è appena stato dato manca Dadawa, la grande cantante di Singapore che compare soltanto nella versione per il mercato giapponese di "Tears of stone". Mi piace talmente tanto Dadawa, che per lei ho appositamente realizzato una musica molto particolare, diciamo "cino-irlandese", che lei ha abbellito con una sensibilità poetica assolutamente straordinaria. Si chiama "Tears lake" questa canzone, e racconta di una giovane che canta al suo amore lontano con una tale intensità emotiva...che le lacrime che le sgorgano dagli occhi inondano la terra fino a formare un immenso lago.Un lago di lacrime, appunto».

Molto toccante. Ma mi dica qualcosa a proposito delle altre interpreti: di Joni Mitchell, per esempio...

«Ah, la carissima Joni... L’ho conosciuta in Giappone, dove abbiamo tenuto insieme un concerto straordinario in una splendida abbazia, c’era perfino Bob Dylan! Ah, Joni... In quel concerto, lei interpretava una canzone, "Magdalene laundries", che affrescava un convento che gestiva una lavanderia, e il sentimento prevalente - fra prostitute, orfane, ragazze-madri e donne depravate - era di una tristezza devastante: una vera e propria disperazione, insomma. In tutta sincerità devo dire che a me quella canzone non piaceva più di tanto, ma lei insisteva nel volerla ripetere: "ci sento dentro una specie di sentimento religioso, che può funzionare benissimo nell’album dedicato all’amore che hai in mente tu", continuava a ripetermi. Così ho voluto accontentarla, mi sono messo a lavorare come un forsennato sulle armonie di "Magdalene laundries" fino a farle diventare quel che si ascoltano ora nel disco. E devo ammettere che i risultati, ora, mi soddisfano appieno...».

E Diana Krall?

«Prima di lavorare con lei non la conoscevo proprio, devo dirlo in tutta sincerità. Tant’è vero che, per il progetto di "Tears of stone", avevo pensato di ingaggiare Aretha Franklin: ma Aretha è così difficile da raggiungere... Allora qualcuno mi ha presentato Diana Krall, e quando ho ascoltato i suoi nastri sono rimasto totalmente basito: è un qualcosa di assolutamente straordinario, una nuova Sarah Vaughan per intenderci! A quel punto ho capito che la sua voce era davvero l’ideale per quel che avevo in mente, una sorta di "irish gospel" con tanto di cori in stile "jubilee", infiorettato dai voli al violino del nostro Sean Keane. Fantastico, no?».

Assolutamente. Ma anche "Sake in the jar", la canzone di Akiko Yano, mi pare del tutto particolare...

«Ha proprio ragione. Ah, Akiko... Lei è un’interprete grandiosa, capace di gettare un meraviglioso ponte fra Oriente e Occidente! Mi ricordo quando ci siamo incontrati a Okinawa, con tutti quei danzatori e cantanti e strumenti di ogni tipo che facevano sembrare il mondo intero un piccolo villaggio multimediale! E’ stata un’esperienza stupefacente, e credo proprio che si avverta un’atmosfera del genere dentro "Sake in the jar". Una canzone che magari può sembrare un tantino "etilica" - lei sa benissimo che il "sake", per i giapponesi, è un po’ come il nostro whiskey - ma che, in realtà, parla d’amore dalla prima strofa all’ultima. Prosit!».

  Di Roberto Gatti

English text

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