giovani e giovanissime, a urlare tutto il loro entusiasmo
per quell’affascinante signora che se ne sta sul palco, drappeggiato di mille veli candidi e di spot abbacinanti, in mezzo alle sue fidatissime macchine da musica: un pianoforte gran coda, un piano elettrico, una tastiera molto anni Sessanta. Se ne sta lì da sola, senza neppure il piccolo aiuto di un qualche amico di passaggio, e nonostante tutta la buona volontà profusa ad ascoltare, osservare, annotare e dirimere dubbi, non si capisce davvero bene chi sia, quella “femme fatale” di Newton, North Carolina, figlia di un pastore metodista di origine scozzese e di una pellerossa Cherokee. Con un gran colpo di teatro, nel suo ultimo album (“Strange little girls”, edito dalla Atlantic), Tori Amos aveva avuto la splendida idea di indossare i volti, e le personalità, di dodici donne affatto diverse fra loro: tante quante sono le canzoni di quel meraviglioso album, vergate dalle penne di “maghi della parola” - come li chiama lei - della possanza di Lou Reed, Tom Waits, Neil Young, John Lennon & Paul McCartney, e via elencando. E questo lo sapevamo già, fin dai tempi della lunga chiacchierata fatta con miss Tori. Ma quella lady che ora è di fronte a noi, e guarda il popolo milanese con un’espressione ora complice e ora trasognata, in definitiva... chi è? Non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai.Quel che sappiamo è solo ciò che l’apparenza lascia trapelare. Oppure, per dirla in termini più elaborati, prelevati di peso dal baedeker di un grande dell’Ottocento, la nostra Tori non è quello che è, e non è neppure quel lei che pensa di essere, ma è quello che gli altri pensano che lei sia. E dunque - a quel che pare - è una sorta di “summa ragionata” delle dodici ragazze del disco, con i capelli lunghi e lisci, castano chiaro, un abituccio alquanto sexy con pantalone che si apre fino al ginocchio per mostrare le calze a rete, il trucco piuttosto pesante. Se dovesse essere trasportata dentro un film noir, sarebbe di sicuro la pianista che sempre compare nelle opere di Raymond Chandler, per esempio “Il grande sonno”, per inguaiare gli astanti che stravedono per lei. Ma siccome Chandler è morto, come pure Dashiell Hammett, e i tabarin pieni di fumo e di vizio sono stati soppiantati dalle discoteche zeppe di ecstasy e di musica techno, ecco che miss Amos, ora, pare un’eroina chandleriana repentinamente trasportata in tutt’altro contesto. E proprio per questo - anche per questo - ha un successo così trionfale.Non ce n’è altre, infatti, che siedano al pianoforte come fa lei, con il piede sinistro appoggiato ai pedali e quello destro vezzosamente appollaiato dietro lo sgabello. E poi, di quando in quando, la postura muta all’improvviso, e allora miss Tori accavalla platealmente le gambe, e si adagia sulla tastiera quasi fosse il corpo dell’amante: perché lei ama il rapporto fisico con lo strumento, tanto da confessare - testualmente - che «il pianoforte è un essere vivente: è il mio fidanzato di scena, al quale riservo tutto il mio amore e la mia passionalità, senza vergogna alcuna». E sarà dunque per questo, anche per questo, che sospira così tanto, e così forte, mentre canta. E se il grande Wilson Pickett è passato alla storia del rhythm ‘n’ blues, e anche del rock, come “l’urlo più intonato del mondo” (riascoltare, per convincersene, quell’autentico capolavoro di “Hey Jude”), non c’è dubbio che la nostra “femme fatale” sarà tramandata ai posteri come “il sospiro più sensuale del pianeta”. Un sospiro che pare generato, proprio come il terremoto, dalle profondità più inviolate di nostra Madre Terra (sarà questo il significato recondito di “Little earthquakes”, il suo album del 1992?), e che si diffonde nell’aria come una brezza sottile, che promana dal palco per andare a catturare i sensi - e molto altro, molto di più - di tutti i presenti in sala. Non importa se uomini, donne o bambini.Detto questo, possiamo solo aggiungere la scaletta della serata: che parte con “97 Bonnie & Clyde” (di Eminem) e si dipana poi attraverso “Real men”, “Lil’ Amsterdam”, “Rattlesnakes”, “Winter”, “New age” (di Lou Reed) e la classicissima “Me and a gun”: la “piccola storia ignobile”, come direbbe messer Guccini, di uno stupro subito a vent’anni non ancora compiuti. E sarà forse per questo, per l’emozione dolorosa che quel ricordo le provoca ancora, che miss Tori interpreta questa canzone “a cappella”, eccedendo un po’ troppo, forse, in pathos e singhiozzi che le si rompono in gola. E sarà per questo, probabilmente, che l’intero concerto risulta sempre alquanto eccessivo: molto “sopra le righe”, insomma.Tanto da far sorgere il sospetto che questo sistematico ricorso all’emozionalità estrema altro non sia che un sottile gioco scenico, tanto per “épater le bourgeois” e scatenare le lacrime dei fans delle prime file. Ma questa è l’apparenza, appunto. E chissà che mai si nasconderà dietro quel volto bellissimo, che la passione e lo sforzo riescono spesso a trasformare in una maschera dolorosa e devastata. |