Max
Gazzè sta guardando il suo doppio virtuale, ingigantito a dismisura
dallo schermo ad alta definizione della Sony. Camera fissa, piano
americano, fondale di un pauperismo ultra-francescano, luce che va e
viene a seconda degli umori dello svedese - inteso come fiammifero -
che gli brucia pigramente fra le dita. E fra un'inquadratura e
l'altra, ecco che i capelli "alla bombarola" gli si fanno
più lisci, più radi e più grigi: proprio come i baffetti assassini,
che non sono più quelli del giovanottino arguto che ben conosciamo,
ma del vecchio incupito, rassegnato, provato dal "mestiere di
vivere". E intanto anche le pappagorgie della faccia diventano
sempre più flaccide e ballonzolanti, e gli occhi cisposi e gonfi, e
il naso spugnoso: come capita a chi alza il gomito troppo spesso e
troppo a lungo. Uno spettacolo tremendamente orrorifico, insomma. Che
per fortuna ha assai poco di reale, visto che si muove attorno alle
note dell'ondivaga canzone presentata a Sanremo, "Il timido
ubriaco", di cui costituisce l'imprevedibile videoclip. E lui, il
trentatreene Gazzè, se la ride della grossa vedendosi ridotto in
questo modo. E inizia pazientemente a raccontare.
L'intervista
Insomma,
Gazzè: che cosa le è venuto in mente?
"Facile
a dirsi. Ne avevo - ne ho - piene le scatole di tutte queste canzoni
che per avere successo devono necessariamente affidarsi al Bello e
all'Accattivante, intesi come categorie estetiche. Dunque, visto che
Madre Natura non ha certo fatto di me un Adone, ho deciso di puntare
tutte le mie carte su un video che fa dell'obbrobrio e dello schifo le
sue chiavi di volta. E per essere ancora più credibile in questo
ruolo, ho chiamato un truccatore bravissimo: lo stesso che, di volta
in volta, trasforma Sabina Guzzanti in Massimo D'Alema o in Silvio
Berlusconi. E' stato un lavoraccio, perché ogni cambio di inqudratura
richiedeva dalle quattro alle sei ore di trucco, ma alla fine ce
l'abbiamo fatta. E il risultato mi piace un sacco".
D'accordo.
Ma l'obbrobrio e lo schifo, come li chiama lei, non riguardano
soltanto il video: svettano anche sulla copertina del suo album, dove
viene esaltato il faccione di un cammello intento a ruminare. Di una
bruttezza a dir poco sublime...
"Eh
già, era proprio quel che volevo. E anche il titolo si sarebbe dovuto
muovere sulla stessa lunghezza d'onda, visto che avevo optato per
"Gazzilla": meravigliosa parola-valigia risultante dalla
fusione di Gazzè e cammello, che certo sarebbe molto piaciuta alla
buonanima di Benito Jacovitti (quello che mise insieme un pachiderma e
un portapacchi per ottenere un improbabile "pachipacchi",
N.d.A.). Ma alla Virgin mi hanno detto che stavo un po' esagerando, e
allora, in mancanza di meglio, per il mio terzo album ho scelto un
titolo semplice semplice come "Max Gazzè": che certo non fa
male a nessuno".
Certo
che no. Ed è anche un modo molto discreto per non tener conto del
tempo che passa...
"Vero
anche questo, e devo onestamente ammettere che del fattore-tempo ero
infinitamente più preoccupato quando avevo 25 o 26 anni, e ci davo
dentro come un matto per sfondare nel mondo della musica, e
m'incazzavo come una bestia perché il successo non arrivava mai. Ma
poi ho capito che c'è il tempo giusto per tutto e per tutti: e
infatti, come per miracolo, il successo è arrivato proprio quando ho
cominciato a non preoccuparmi più delle sue ammalianti chimere. E
dunque adesso credo di essere perfettamente vaccinato contro gli alti
e bassi della sorte, e se la "gloria" (ride di gusto, ah ah
ah!) dovesse voltarmi all'improvviso le spalle, non credo proprio che
mi metterei a sbettere la testa contro il muro per la disperazione. In
fin dei conti, la sovra-esposizione da Festival è un qualcosa che
proprio non mi aspettavo.Credo di essere molto più
"tagliato" per un pubblico medio-piccolo: di nicchia, come
si dice in gergo.E allora...".
Colpa
dei testi delle sue canzoni, forse?
"Forse
sì e forse no. Certo che a me piacciono le "parole che
dicono", e da sempre mi esercito a migliorare e ad affinare
sempre più la "densità" dell'espressione verbale. Non per
niente i miei poeti preferiti sono i simbolisti e gli ermetici, quelli
che possono essere assaporati e interpretati sulla base di un numero
elevatissimo di piani di lettura. E non a caso il mio preferito in
assoluto, Stéphane Mallarmé, compare in ben due canzoni di questo
mio ultimissimo album: "Elemosina", che è poi la traduzione
quasi letterale (per opera di Antonio Guerrini) di una sua splendida
poesia, e "Su un ciliegio esterno", che dal mio
personalissimo punto di vista contiene un bilanciamento pressochè
perfetto fra testo e musica.Premesso tutto questo, mi fa ovviamente un
gran piacere che il pubblico (e la critica) abbiano apprezzato. Li
ringrazio infinitamente!".
E
tutto il resto dell'album, come lo definirebbe?
"Lo
vuol proprio sapere? Tutto il resto è punk della più bell'acqua.
Perché, per me, il punk non è soltanto la musica di Sex Pistols,
Clash e Damned: è anche un'alterazione di un certo stato delle cose,
è un qualcosa che sta sospeso nell'aria e non c'è verso di tirarlo
giù. E' un concetto difficile da definire, me ne rendo perfettamente
conto: anche perché, forse, più che una categoria della musica è
un'opzione dello spirito. Secondo me, insomma, il punk più che
descritto va percepito, più che sentito va annusato e assaporato. E
proprio per questo, forse, è ancora vivo e vegeto: a dispetto di
tantissimi uccellacci del malaugurio!". |