Per
entrare a pieno titolo nel mondo musicale di Stephan Micus occorre essere
simili a lui: molto curiosi, molto aperti, molto disponibili al viaggio,
sia fisico che mentale. E poi non guasta aver soppesato a puntino le
parole del grande Don Cherry: il quale sempre ripeteva che per suonare uno
strumento appartenente a un’altra cultura occorre dapprima approfondirne
la tradizione, e poi ricercare sullo stesso un approccio squisitamente
personale. Ma, una volta fatto questo, nulla più si frappone
all’ingresso nel magma di suoni fatati, distillati, quasi incantati, che
questo quaranticinquenne tedesco di Stoccarda insegue - ormai da più di
vent’anni, e sempre per la stessa etichetta: la prestigiosa Ecm di
Monaco di Baviera - con un rigore e una tenacia che sono parenti prossime
della perfezione.
E’
un autentico "eremita della musica", Stephan Micus. Compone da
solo, registra da solo, suona da solo un’infinità di strumenti: che
spaziano dallo "sho" (l’organo a bocca giapponese) al "ki
un ki" (lo strumento a vento utilizzato dalla tribù siberiana degli
Udegeys), dal "bodhran" (il tamburo sciamanico irlandese) al
"bolombatto" (l’arpa a lamelle dell’Africa occidentale),
tanto per citarne alcuni. E sempre da solo, ovviamente, incide tutte le
voci che compaiono nei suoi dischi: utilizzando le modernissime tecniche
di registrazione a più piste per realizzare armonizzazioni che
possiedono, intatto, il profumo della magia. Una magia che traspare anche
dal suo volto, disteso e meravigliosamente pacificato, e dalle parole
quiete e distese che ci concede il pomeriggio di un qualunque sabato di
novembre, nella saletta di un albergo milanese a due passi da Brera.
Mancano solo poche ore all’indimenticabile concerto che terrà al Nuovo
Piccolo Teatro, nell’ambito della rassegna "Multikulti", e lui
le trascorre dialogando e sorseggiando the. Rigorosamente
verde.Naturalmente giapponese.
Signor
Micus, come mai ha deciso di abbandonare il suo paese natale?
"E’ molto semplice. La Germania è un paese troppo moderno per i
miei gusti, e poi il clima è molto duro... e la gente anche. Vivevo nella
campagna bavarese, a due passi dalle Alpi, e devo ammettere che il luogo
era veramente fantastico: perché io amo di tutto cuore la montagna. Ma
amo ancor di più il sole, e lì ce n’era talmente poco... Così, tre
anni fa, ho fatto i bagagli, e mi sono trasferito a Maiorca".
E’
stata una scelta di vita, la sua...
"Certo, la ricerca del sole è stata determinante. Ma è stata anche
una scelta molto pragmatica, perché Maiorca possiede uno degli aeroporti
più attrezzati d’Europa, dal quale è sempre possibile partire in ogni
momento del giorno, 365 giorni all’anno. Se volessimo sintetizzare il
tutto in una specie di equazione, potremmo scrivere: Sole + Campagna +
Aeroporto = Paradiso. Ecco che cos’è, per me, Maiorca!".
Mi
par di capire che lei ha cominciato a viaggiare molto presto...
"Nell’estate del 1969, a sedic’anni compiuti da poco (sono nato
il 19 gennaio 1953). La meta era il Marocco, che a quei tempi era un luogo
completamente diverso da quello che conosciamo ora: un incanto, niente di
più e niente di meno, che ha esercitato un’influenza fortissima sulla
mia visione del mondo. Ma il viaggio che mi ha influenzato ancora di più
è stato quello che ho compiuto un paio d’anni più tardi, in India. Lì
ho infatti comprato i miei primi dischi, dell’allora quasi sconosciuto
(almeno in Europa) Ravi Shankar. Lì ho cominciato a studiare la musica e
gli strumenti della tradizione indiana: sitar, sarangi e tambura innanzi
tutto. E lì ho imparato che per comprendere davvero la musica di un altro
paese bisogna viverci a lungo, condividerne in profondità le abitudini, i
vestiti e i cibi.Che è poi quel che già dicevano, secoli fa, i Nativi
americani: se vuoi conoscere il tuo simile, cammina per un mese nei suoi
mocassini...".
Anche
il Giappone, a quanto pare, ha esercitato su di lei un’influenza
formidabile...
"E’ vero, ed è una cosa che non riesco assolutamente a spiegarmi.
Perché sento distintamente che questa fascinazione non proviene dalla
mente, ma direttamente dal cuore. E la faccenda, da questo
particolarissimo punto di vista, si muove perfettamente in parallelo con
il mio modo di fare musica...".
Si
spieghi meglio, per favore.
"Lo farei volentieri, se solo lo sapessi: ma il fatto è che non lo
capisco neppure io! Sta di fatto che mi metto lì, rilassato e tranquillo,
e dentro di me avverto soltanto una specie di "bolla": un’idea
iniziale, per dirla in termini razionali. Ma il fatto è che non c’è
nulla di razionale in tutto questo, l’intero processo promana
dall’inconscio: non appena sono riuscito a creare una sorta di
"vuoto" dentro di me. A quel punto la "bolla" comincia
a crescere, a espandersi, fino a raggiungere una forma quasi compiuta: che
io registro immediatamente su nastro. Poi riascolto il tutto, affino,
limo, scelgo gli strumenti più adatti e le "frasi" più
significative. E allora capisco che sono quasi giunto alla fine del mio
lavoro...".
E’
molto interessante tutto questo, perché mette in luce il nocciolo
essenziale della sua musica: quel suo essere, o quasi, una
"meditazione zen", seppur costruita con strumenti assolutamente
particolari...
"Può essere che sia così, anche se - ancora una volta - io non ne
sono assolutamente consapevole. Nel mio caso personale, l’unico aspetto
certo è che la musica può risultare buona soltanto se io, componendola,
riesco a posizionarmi "altrove". Se cioè riesco a diventare
"un altro da me", che scrive-compone-canta a totale insaputa
dello Stephan Micus in carne e ossa. Curioso, vero?".
Sì
e no. E’ uno dei principi basilari del "channelling", tutto
questo...
"E’ vero! Anche se devo ammettere in tutta onestà che, finora, il
"channelling" è una tecnica che non ho mai praticato".
Se
dobbiamo dar retta ai risultati, è molto probabile che lo possieda dalla
nascita, quasi alla stregua di un "patrimonio genetico". Anche
perché non è un mistero per nessuno che lei lavora sempre da solo...
"E’ vero, ma sul mio solipsismo vorrei chiarire - molto
razionalmente, questa volta - alcuni punti fermi.Il primo è che fin da
bambino ho sempre preferito fare le cose da solo, e questo incide ancora
parecchio sul mio modo di essere. Il secondo risale ai tempi in cui ho
iniziato a suonare, quasi una trentina d’anni fa: allora imperversava
una sorta di omologazione totale, e a me non interessava proprio
confrontarmi con gente che suonava sempre allo stesso modo. Il terzo ha a
che fare con la mia predilezione per la campagna: e ammetterà che è
alquanto difficile formare una band, nelle lande remote della Ruhr. Il
quarto riguarda invece i miei talenti: che, grazie a Dio, sono molteplici
e sfaccettati. E allora perché mai dovrei mettermi in gruppo, quando
riesco - da solo - a suonare un’infinità di strumenti?".
Domanda
più che legittima. E allora ci permetta di rivolgergliene un’altra,
quella finale: la vedremo mai alle prese con altri artisti?
"Forse sì. Proprio di questi tempi, infatti, sto intensificando i
contatti con due musicisti che apprezzo moltissimo: il percussionista
Pierre Favre e il "bandoneonista" Dino Saluzzi. Se son
rose...". |