aggiunti) entrano in scena in un teatro Manzoni esaurito fino all'ultimo degli strapuntini, più che a un concerto pare di essere capitati a una sfilata di Gucci o di Prada. Sono tutti vestiti di nero, da capo a piedi. Chi con una T-shirt e un ampio camicione sopra (Ryuichi Sakamoto), chi con una polo girocollo (Jaques Morelenbaum), chi con un abito tutto pizzi e merletti (sua moglie Paula), chi con normalissime camicie di cotone (il chitarrista Luíz Brasil e il percussionista Marcelo Costa). Ma, come dicevamo, è il nero il "non colore" unico e dominante. Ed è anche logico che sia così, perché quel che i cinque si apprestano a fare non è soltanto una rilettura metodica e puntigliosa del canzoniere di Antonio Carlos Jobim, il più grande compositore brasiliano del secolo scorso, da molti definito il "George Gershwin della musica brasiliana". E' anche, o soprattutto, una gigantesca "operazione di sottrazione": delle emozioni, dei sentimenti, dei ritmi, della vocalità più estesa ed estroversa. Nella miglior tradizione, insomma, della bossa nova di
João Gilberto, il Maestro Venerabile.
Non bastasse tutto questo, c'è anche un enorme, raffinatissimo tentativo di rendere immortali le canzoni di Jobim, di trasformarle in "classici" della musica di sempre. Già l'aveva premesso, Sakamoto, quando l'estate scorsa era piombato a Milano per presentare "Casa" (Sony Classical), il cidì "todo Jobim" concepito a quattro mani con Jaques Morelenbaum, il grande violoncellista, l'arrangiatore prediletto da
Caetano Veloso. Aveva detto: "Non c'è nessuna nostalgia nella nostra rilettura di "evergreen" come "Amor em paz" e "Chega de saudade", "O grande amor" e "Vivo sonhando", e di tanti altri motivi apparentemente "minori" come "Sabiá" e "Bonita". Al contrario, c'è il tentativo, spero riuscito, di trattare le canzoni di Jobim come "lied" di Schumann, come melodie di Debussy. Jaques Morelenbaum ed io, infatti, abbiamo in comune sia la formazione accademica sia un debole per Schumann e Debussy (e per Bach e Beethoven, ovviamente). E dunque credo che la "riscoperta" di Jobim, così cantabile e apparentemente semplice, possa rappresentare proprio questo: il giusto anello di congiunzione fra l'estasi della classicità e la turbolenza del rock".
Se questi erano i presupposti di partenza, i risultati sono a dir poco impeccabili: coerenti fino all'ultima nota. Addirittura più in concerto che su disco. Sakamoto accarezza i tasti del suo Steinway grancoda con una leggerezza e una concentrazione degne di una "Sonata al chiaro di luna": è uno straordinario esecutore, Ryuichi, ed è in situazioni come questa che la faccenda balza all'orecchio. Jaques Morelenbaum a volte applica la sua incomparabile maestria strumentale a un violoncello elettronico di fabbricazione giapponese, e allora sono pizzicati cupi, corposi, quasi tellurici; ma quando passa all'archetto, e a uno strumento acustico di scuola italiana, traccia nell'aria melodie sublimi, soavi e cantabilissime, che sostengono e sottolineano il canto di sua moglie Paula. La quale ha un'intonazione affatto particolare, molto introversa e quasi esangue, e una voce che pare un sussurro: è certo l'anello debole dell'intera catena, ma è anche quella che più di tutti si applica all'operazione di "sottrazione", fino a rendere il suo canto quasi un "koan", un sospiro di scuola zen. Meravigliosamente sorretto dalle percussioni minimaliste di Marcelo Costa (che per quasi tutto il concerto accarezza con i polpastrelli un semplice tamburello circolare, e per il resto sono solo spazzole e tamponi... per la delizia delle nostre orecchie) e dalla chitarra acustica di Luíz Brasil: un mago delle sei corde, dotato di una sensibilità interpretativa degna del grande Baden Powell.
Da quel che s'è detto finora, sarà probabilmente abbastanza chiaro che il concerto di lunedì sera è stato davvero un gran concerto. Con una scaletta che ha rispettato per un'ora buona il materiale presente su "Casa", e per il resto ha presentato alcune soprese graditissime. Per esempio una versione di "Desafinado" quasi irriconoscibile, tanto suonava eterea e impalpabilmente ironica, del tutto degna dello spirito con cui era stata scritta nel 1958. Per esempio l'apparizione sul palco della figlia di Jaques e Paula, una vispissima bimbetta di otto anni o giù di lì: che ha afferrato il microfono con la disinvoltura di una veterana. Per esempio l'esordio al canto di Jaques Merelenbaum, che per l'occasione ha scelto "Bim bom": un motivo delizioso, dotato di un'essenzialità quasi zen che si riflette nelle sofisticata struttura ritmica, fatta di lievi esitazioni e di impercettibili ritardi, al fine di mettere insieme due entità apparentemente inconciliabili fra loro: una sottile enfasi drammatica e un'ancor più sottile vena ironica. Ed è così che ci si avvia al gran finale, con la gente del Manzoni - a prima vista così "rampante", così apparentemente distante da qualsiasi coinvolgimento emotivo - tutta in piedi a urlare bravi bravi, e a fare la ola come al Maracanà di Rio de Janeiro. |