appassionato e rigoroso da
rappresentare già un piccolo caso nel panorama discografico della
stagione. Non è da tutti, dicevamo, ma da Hector Zazou sicuramente sì.
Lui infatti è, da sempre, uno dei pochissimi musicisti capaci di cantare
"fuori dal coro" dell'omologazione e della ripetitività. E, da
sempre, è anche un impavido Eremita delle sette note: in grado di
spostarsi, con prodigiosa abilità, dal canto a tenore della tradizione
còrsa ("Nouvelles polyphonies" del 1993), a un originalissimo
omaggio alla poetica di Arthur Rimbaud ("Sahara blue", del
1995), fino all'algida espressività del folklore scandinavo ("Chansons
des mers froides", del 1996). E ora che è finalmente approdato sulle
coste impervie d'Irlanda, per mettere a punto - con "Lights in the
dark", Detour, 1998 - una meravigliosa rilettura dei canti sacri del
primo cattolicesimo, più o meno riconducibili all'anno Mille, il grande
compositore francese pare aver raggiunto la pace interiore che cercava. E
che è poi la condizione essenziale per riportare quelle formidabili
salmodie a una condizione di misteriosa attualità.
L'intervista
Signor Zazou, da dove
provengono i materiali che lei ripropone ora con "Lights in the dark"?
"I materiali di base
sono costituiti da antichissimi brani irlandesi riscritti da alcuni musicologi alla fine
del secolo scorso, o all'inizio del presente. Di questi, esistevano già alcune
registrazioni realizzate una cinquantina d'anni or sono, seppur in maniera un pochino
approssimativa. Io non ho fatto nient'altro che rendere queste registrazioni più
"chiare", più comprensibili all'orecchio dell'ascoltatore contemporaneo".
Sarebbe a dire?
"Sarebbe a dire che ho
dovuto fare delle scelte: magari discutibili ma assolutamente essenziali, almeno dal mio
punto di vista. Per esempio sulle tonalità. Per esempio sulle "corrispondenze
moderne" di ciascun canto, che ho cercato di inserire in strutture più aperte e
vicine a noi: un po' come aveva fatto a suo tempo Peter Gabriel, con le
"sorgenti" da cui aveva tratto la colonna sonora di "L'ultima tentazione di
Cristo". E questo significa, nel mio caso concreto, che ho preferito aggiungere
alcune armonie a quelle presenti nei temi originali, e bilanciarle con uno spirito che
potrei tranquillamente definire "gospel". Mi creda: è stato sensazionale
scoprire come i canti della prima tradizione irlandese potessero coesistere con materiali
così lontani, nello spazio e nel tempo".
E pensa che tutto questo
sia stato rispettoso, nei confronti del modello originale?
"Direi proprio di sì,
perché - credo - ci sono almeno due modi di concepire quella che in gergo definiamo World
Music. Il primo modo, tutto occidentale, è quello che si può sintetizzare in un termine
solo: innovazione. Il secondo modo, molto più orientale, è quello che non pretende di
innovare alcunchè, ma, al contrario, si ingegna di rispettare una tradizione che si
perpetua nei secoli dei secoli. Bene, fin dagli inizi degli anni Novanta io, nel mio
piccolo, ho sempre cercato di approfondire la comprensione di alcune culture - e delle
manifestazioni musicali a queste connesse - con un approccio sostanzialmente
"occidentale": e questo vale, ovviamente, anche per "Lights in the
dark". Dove ho tentato di osservare con "occhio moderno" una musica che ho
sempre amato: col pieno rispetto di un "genere", come quello irlandese, che
ormai è apprezzato da tutti, e che proprio in quegli anni si andava fondando e
formalizzando. Tutto qui".
Lei è dunque convinto
che questi canti antichissimi possano trovare l'apprezzamento di un pubblico molto
vasto...
"Direi proprio di sì,
visto il favore con cui sono stati accolti, negli ultimi anni, i lavori di tante
formazioni dell'Isola di Smeraldo. Tenga comunque presente che il motore della mia ricerca
non è stato tanto il favore del pubblico, ma la semplice motivazione artistica: che è
assolutamente essenziale, quando si vuole mettere a punto una proposta onesta e
sincera".
Crede dunque di aver
compiuto un passo determinante, dentro la sfera della "musica sacra"?
"Sì e no. Un passo
del genere - se solo mi fermo a riflettere su quanto mi aveva domandato un giornalista
tedesco un paio d'anni fa - penso di averlo compiuto già ai tempi di "Chansons des
mers froides". Però devo ammettere che "Ligths in the dark", pur
rappresentando un elemento di sostanziale continuità con i miei lavori precedenti, è
davvero un disco speciale. Un progetto a cui già pensavo da tempo immemorabile, ma che
poi avevo sempre abbandonato ai primi vagiti: forse per vigliaccheria, o forse per paura.
La paura di imbattermi in un qualcosa di infinitamente grande e ineffabile, almeno per
me". |