fidanzatina di Mick
Jagger, tutti i giornali britannici si dilettavano a contrapporre il suo meraviglioso visino angelico a un comportamento alquanto libertino (narra infatti la leggenda che Marianne avesse scelto Mick perché, di tutti gli Stones, era di gran lunga il più efficiente fra le lenzuola...). Altri tempi. Ora, a quasi quarant'anni di distanza da quei gossip e dalla prima canzone portata al trionfo - "As Tears Go By", scritta appositamente per lei dalla premiata ditta Jagger-Richards - Marianne ha deciso di risolvere definitivamente quella facile dicotomia rivendicando per sè il titolo onirifico di musa. Una Musa dalla voce arrochita dalle mille sigarette e da una vita sempre in bilico fra ascesi e perdizione. Una Musa umbratile, poliedrica e versatile, capace di affrontare il canzoniere espressionista di Weill e Brecht (di cui, fra l'altro, è probabilmente l'interprete più fascinosa e sofisticata) e, in parallelo, un repertorio pop (pop???) totalmente svincolato da qualsiasi banalità teenageriale: come ben dimostrano sia il già citato "Kissin' Time" - realizzato in collaborazione con artisti come Beck, Dave Stewart, Billy Corgan (ex Smashing Pumpkins), Jarvis Cocker (Pulp) e Damon Albarn (Blur) - sia i suoi lavori precedenti, primi fra tutti i sensazionali "Broken English" (1979) e "Vagabond Ways" (1994).
Quando appare sul palco del Manzoni come al solito strapieno in ogni ordine di posti, alle 9 precise di lunedì 28 ottobre, la Musa, più che da musa, è vestita come l'impeccabile donna in carriera di tanti spot pubblicitari. Vale a dire con un tailleur-pantalone nero come la pece, camicia bianca a giro collo, un paio di tacchi assassini alle estremità ben piantate sul palco. Poco male, anche questo "armanismo" fa parte dell'attuale tranche di carriera. E a vederla così da lontano, con quei capelli corti e biondissimi e il sorriso smagliante che scopre i denti candidi, non si nota per niente il volto devastato dalla fatica di vivere. In compenso si avverte la voce, così roca e smagliata, attraversata di quando in quando da un curioso "birignao" à la Bob Dylan (a proposito, chissà che in futuro non si decida finalmente ad affrontare anche classici dylaniani come "Desolation Row", "Tangled up in Blue" e "Like a Rolling Stone": quella "sua" voce li trasformerebbe in capolavori degni di quelli del Maestro...). E soprattutto si intuisce che ora, a 56 anni quasi compiuti (li farà il prossimo 29 dicembre), l'affascinante figlia di un gentleman inglese e di una baronessa austriaca, nipote di von Sacher-Masoch (e questo spiega ad abundantiam certe sue perversioni passate), pare aver definitivamente imboccato la "sunny side of her street", il lato solare del suo cammino di vita e di carriera. Infatti il quartetto che l'accompagna - il tastierista Andy May, il chitarrista Brian McFie, il bassista Garry John Kane, tutti e tre scozzesi di Glasgow, e il batterista Johnny Boyle, di Dublino - è pregno di un rockismo a dir poco esasperato: proprio come gli arrangiamenti delle canzoni, tutti curati da Andy May. E questo si spiega, forse, con il fatto che la Musa ora trascorre la sua esistenza con un uomo alquanto più giovane di lei, e a tanti colleghi giovanissimi (quelli già citati in precedenza) ha chiesto di condividere le fatiche e le gioie del suo ultimo lavoro.
Insomma, rispetto alla Faithfull che avevamo ammirato svariati anni fa ai Magazzini Generali (solo lei con un pianista al seguito, intenti a rifare straordinariamente bene il canzoniere di Weill-Brecht) questa è una Musa completamente diversa. Intrattiene il pubblico con la sua voce fumosa, lancia nell'aria anelli di fumo dell'ennesima sigaretta e fulminanti motti di spirito, ricorda episodi di un passato lontano: come l'incontro in aereo con Nico, la femme fatale dei Velvet Underground, alla quale ha appena dedicato una splendida canzone, "Song for Nico". E, soprattutto, danza attorno al microfono con una grazia e un'eleganza del tutto sconosciute alle nuove stelline del pop, Christina Aguilera e Britney Spears, Amanda Latona e le due Tatu di Russia. Segno che la classe non è acqua (e non è nemmeno birra, come disse a suo tempo, con impagabile sense of humour, l'ineffabile Paul Gascoigne). Segno che il meglio del rock è fatto, ancor oggi, da tanti dei suoi Padri Fondatori: non tanto gli Stones, che continuano ad autocelebrarsi con un patetismo degno di Dorian Gray, quanto Bob Dylan e Van Morrison, Neil Young e Lou Reed. E, perché no, Tom Waits.
Proprio di Tom Waits è infatti il magnifico bis - "Strange Weather" - che la Musa, completamente commossa, dedica a "questo pubblico davvero meraviglioso". Ma prima, in ordine sparso, per un'ora e mezza tiratissima di concerto, c'erano state le canzoni nuove nuove: "Wherever I Go" e "I'm on Fire", "Song for Nico" e "Kissin' Tilme", "Like Being Born" e "Sliding Through Life on Charm". E nel mezzo, buttate lì con soave nonchalance, alcune preziosissime perle del passato recente e remoto, prime fra tutte "Why Did You Do It?", "Broken English" e l'indimenticabile "Working Class Hero" di John Lennon. Proprio in questi casi, così colmi di pathos e di corposità espressionistica, lo show raggiunge il suo climax. Un po' per la natura intrinseca di quei capolavori, e un po' perché qui, finalmente, il rockismo indomito dei quattro musici al seguito, e massime del batterista Boyle, allenta finalmente la presa: per lasciare che la voce tormentata della Musa si elevi, libera e irraggiungibile, fino al Settimo Cielo. E per il resto sono sorrisi e ringraziamenti, fischi di giubilo e urla di tripudio. E un enorme mazzo di rose rosse, che il compitissimo valletto del teatro adagia fra le braccia della commossa Marianne. |