aforisma di
Freak Antoni: quello per cui "la fortuna è cieca, ma la
sfiga ci vede benissimo". Un maledettissimo
accidente, insomma, in grado di mettere ko anche il più
tetragono dei combattenti. Ma per Natacha Atlas, dolce
fanciulla di ascendenze per metà palistinesi e per metà
egiziane, questa interminabile odissea fra due città
parimenti improbabili si è trasformata, alla fine, in un
autentico pellegrinaggio alla Mecca. Perché a Bruxelles,
nello "slum" islamico, grazie all’aiuto
provvidenziale di genitori e zii, ha messo a punto i
caposaldi fondamentali dello "shaabi" (cioè del
pop egiziano di questi ultimi anni) e della "belly
dance", o danza del ventre che dir si voglia. E
invece a Northampton, a dispetto della miserevole
tetraggine della vita quotidiana, il destino l’ha
portata a imbattersi nelle propaggini estreme della
"techno" inglese d’avanguardia, quella
architettata da nomi come Asian Dub Foundation, Talvin
Singh e Transglobal Underground. Di modo che miss Atlas,
una volta trasferitasi definitivamente a Londra dopo
un’altra rapidissima capatina in quel di Bruxelles, ha
potuto ragionevolmente affermare di aver imparato l’arte
e di averla messa giudiziosamente da parte. In attesa di
giorni migliori.
Giorni
che stanno arrivando proprio ora, allo scadere del secondo
millennio, grazie a un tour europeo che ha toccato anche
Milano (la Festa della Musica dello scorso mese di giugno)
e il Montreux Jazz Festival, dove alcune centinaia di fans
hanno atteso fino alle 2 del mattino pur di vederla
comparire sull’enorme palcoscenico dell’Auditorium
Stravinski. Giorni che lei ha preparato con una pazienza e
una metodicità degne di miglior causa, dapprima
collaborando come "vocalist" e "belly
dancer" con i già citati Transglobal Underground, e
poi realizzando in proprio tre album interessantissimi -
"Diaspora", "Halim" e
"Gedida", tutti editi dalla Beggars Banquet -
dove prende forma e vigore un’osmosi nuovissima, e
potenzialmente esplosiva, fra Oriente e Occidente. Una
sorta di "Islam pop", per dirla con una
formuletta ultra-sintetica, in cui le millenarie salmodie
vocali d’Arabia leggiadramente copulano con le macchine
da ritmo metropolitane, e gli strumenti della tradizione
più pura - l’oud, il bouzouki, le tablas, il dulcimer,
il riqq, il bendir - si alternano con grandissima
naturalezza con lo "scratch" dei di-gei più
tendenziosi d’oltre Manica.
A
proposito di questo originalissimo métissage, che in
Francia vanta già legioni di adepti e promette di essere
il "must" per antonomasia dei mesi che verranno,
la minuscola Natacha - 156 centimetri tacchi compresi,
incantevoli occhi verdi, forme giunoniche come si conviene
a ogni "belly dancer" di razza - dimostra di
avere le idee meravigliosamente chiare. «Qualcuno ha
definito "nuovo raï" questo mix, mettendolo
indirettamente in relazione con le cose che fanno Khaled,
Cheb Mami, Rachid Taha e Bellemou Messaoud: ma io non sono
per niente d’accordo», dice decisa.«Io infatti, vuoi
per questioni familiari, vuoi per sentimenti profondi,
sono molto più vicina a un modo egiziano di intendere le
cose, piuttosto che algerino. Per questo trascorro al
Cairo tutto il tempo libero che mi rimane fra un tour e
l’altro: per migliorare sempre più la mia conoscenza
della lingua e della musica arabe. Per questo i miei
modelli di riferimento privilegiato sono i grandi cantanti
della tradizione egiziana antecedente allo
"shaabi". Tutta gente che potrebbe interagire
benissimo con i "miei" mostri sacri
d’Occidente: Sinead O’ Connor, Asian Dub Foundantion
e, soprattutto, Björk, una chanteuse con cui mi
piacerebbe moltissimo collaborare in futuro».
Se
questi sono i desideri del domani, l’oggi di Natacha è
contrappuntato da canzoni salmodiate un po’ in arabo e
un po’ in inglese, fascinosamente fluttuanti attorno a
quel "tono di indeterminatezza" che pare essere
la cifra essenziale della musica mediorientale. Sono
ballate leggiadre e impalpabili, le sue, che cantano
soprattutto l’amore, il sentimento e le emozioni senza
tempo. Come in "Bahlam", dove volteggiano
leggerissimi «i sogni di tante ragazze che non sono mai
cambiate da mille anni a questa parte». O come in
"Mon amie la rose", che è «un rifacimento a
modo mio, vorrei dire in forma di lamento, di una
delicatissima canzone interpretata da Françoise Hardy più
di trent’anni fa». E se i temi di natura politica e
sociale rimangono per il momento totalmente preclusi, in
questo universo soffice come la rugiada di primo mattino,
il perché è presto detto. «Il mio desiderio più grande
è che i miei dischi vengano ascoltati e diffusi anche in
Egitto», racconta miss Atlas con grande convinzione. «E
da quelle parti, nonostante ci siano state negli ultimi
anni alcune timide aperture, parlare di queste faccende è
ancora proibito. Quindi... meglio andare con i piedi di
piombo, con la speranza che prima o poi qualcosa succeda».
E non c’è alcun dubbio che le cose andranno proprio così.
Nulla è precluso a chi è riuscito ad agguantare il
successo a dispetto di quel tremendo handicap di partenza:
partire da Bruxelles per arrivare a Northampton. |