repertorio storico, e magari anche, chissà, con un paio d'ore di musica in diretta (per la cronaca, all'appuntamento saranno presenti anche un altro paio di "pezzi da novanta" del primo punk inglese, Elvis Costello e i Clash: ne vedremo delle belle...). La seconda notizia, assai più sostanziosa, è che a Stewart Copeland, il batterista di quel leggendario trio, la faccenda pare non interessare più di tanto. Un po' perché solo raramente rivede Sting e Andy Summers, e quando gli capita è solo per giocare a tennis o a golf. E un altro po' perché, oggi, è in tutt'altre faccende affaccendato. Per esempio a suonare di quando in quando con gli Oysterhead di Trey Anastasio o con i Doors redivivi: "me l'ha chiesto Ray Manzarek in persona, e mi piace molto l'idea di trasformarmi in una rockstar da week-end", racconta con sublime ironia. Oppure a comporre altre pregevoli colonne sonore, dopo i successi di "Rumblefish" e "Rapa Nui", tanto per citarne solo un paio: "ora sto lavorando sulle musiche di due film, "I am David", sui lager in Bulgaria, e "Dead like me", una black comedy originalissima, e devo dire che mi diverto moltissimo". Oppure ancora a suonare dal vivo con la sua Orchestralli, chiamata così perché gli piace un sacco il suono di questa parola (che in realtà andrebbe scritta con una "elle" sola, ma si sa come sono fatti gli inglesi): proprio come ha fatto lunedì sera al teatro Smeraldo di Milano, in occasione del quarto appunatmento della bella rassegna "Eurotribu", fra l'entusiasmo da stadio dell'intera platea.
Quando entra in scena, dopo una folgorante esibizione dei quattro percussionisti dell'Ensemble Bash (davvero niente male la loro performance per sole bacchette di batteria, una curiosa via di mezzo fra il Kodò giapponese e Steve Reich), Copeland sprizza energia da tutti i pori. E' in forma smagliante nei suoi cinquant'anni portati con fantastico brio. E' completamente vestito di bianco, corre avanti e indietro per il palco come un ragazzino, sfoggia un sorriso che quello di Virna Lisi per la Chlorodont non era niente al confronto. E con ottima pronuncia esordisce con un "buonasera, milanesi!" che non avevamo mai sentito dire da nessuno (in genere, infatti, tutti infatti sbraitano un patetico "Ciao Malano!"). E poi dice "e lucean le stelle...", tanto per chiarire subito di che pasta (classica) è fatto, e infine chiude ridendo: "this is all the italian I know", e morta lì. E allora, al posto della parole, lascia parlare la musica, organizzata con i quattro dell'Ensemble Bash già ricordati e con la giovane Orchestra Ueca: tutta italiana ma diretta dall'americano Robert Ziegler, che presenta un eccellente solista come Amedeo Bianchi, per l'occasione impegnato sul versatilissimo sassofono elettronico Yamaha. E' una musica eclettica, nevrile, sciabordante e torrenziale, quella di Stewart. Che deve la sua genesi "alla mia voglia, comune a ogni batterista, di essere considerato qualcosa di più un semplice "noise maker"", e, quanto a stili, si rifà un po' alla contemporanea, un po' al pop e un po' anche al jazz. Soprattutto alla sua variante free e radical-europea, come si intuisce da certi pieni orchestrali che dapprima si rompono in mille rivoli, e poi si ricompongono all'improvviso in un unico alveo di impressionante vigore.
A proposito di jazz, è divertente ricordare quel che ci aveva raccontato qualche giorno prima lo stesso Copeland. "A me il jazz fa sempre venire in mente una sorta di "musica di morte", perché mio padre mi costringeva sempre ad ascoltarlo la domenica mattina, quando andavo a casa dei miei per il "lunch". E questo, forse, mi è rimasto scolpito nella mente a lettere di fuoco". Poi però, alla richiesta di quale batterista era stato fondamentale per la sua formazione musicale, senza un attimo di esitazione aveva risposto: Buddy Rich. Vale a dire uno dei massimi esponenti del "jazz drumming" classico, dotato di uno swing metodico e implacabile come un metronomo. E questo è davvero curioso per un percussionista che del jazz pensa quel che abbiamo appena riferito, e che forse deve la sua stupefacente maestria strumentale a una sorta di amore/odio per quel che ha dovuto ingoiare a viva forza in gioventù. Misteri dell'arte!
Detto questo, rimane da dire che la cifra più gustosa del concerto di lunedì sera è stata quella dell'eclettismo spinto all'estremo. Di certi incipit che partivano come cloni della "Pantera rosa" (e dell'indimenticabile assolo al sassofono di Tony Coe) per poi piegare poderosamente verso la contemporaneità brutale. Di certi schemi percussivi chiaramente mutuati dallo Steve Reich di "Music for 18 musicians", che poi si essenzializzavano in strutture primitive per soli tamburi (generalmente africani). Di certe melodie molto cantabili e leggere, almeno all'inizio, salvo poi ingarbugliarsi in trame spessissime per trombe, sassofoni, clarinetti bassi e archi in libertà. E forse è anche il caso di ricordare la ragione essenziale di questa stupefacente mutazione di pelle rispetto ai tempi dei Police, almeno come ce l'ha raccontata lo stesso Copeland durante la cena del dopo-concerto: "Quando stavo con Sting e Andy, ero sempre teso, nervoso, unicamente concentrato sul successo a ogni costo: tutte cose che irrigidiscono, ovviamente. Ora, invece, mi sento leggero, duttile, flessibile come un giunco. E la musica ne risente in pieno!". Ha idee molto chiare il ragazzo, non vi sembra? |