Intervista
a Battiato
Sono
sette anni che Franco Battiato ha spostato la sua dimora stabile
da Milano a Giarre, un paesino alle falde dell'Etna, a un'ora
(scarsa) di macchina da Catania, 700 metri d'altezza e poche
centinaia di abitanti. E sono sette anni che il musicista
siciliano, fra un disco di canzoni e un lavoro di più ampio
respiro classicheggiante, fra una tournèe e una qualche
(rarissima) apparizione televisiva, dedica tutto il poco tempo che
gli rimane alla sistemazione della sua casa: un autentico paradiso
terrestre che occupa per intero il cucuzzolo di una collinetta,
davanti Taormina e l'immenso mare di Sicilia, alle spalle la
sagoma imponente, e anche un pochino conturbante, del grande
vulcano.
Questo "work in progress" - come lo definisce lui,
ridendo della sua incapacità di trovare un termine italiano in
grado di rendere efficacemente l'idea del suo lavoro - lo distende
e lo rilassa in maniera totale.
"E'
bellissimo", dice, "poter trasformare piano piano una
vecchia stalla in una cappella, o ricavare un teatrino di prova da
uno scantinato adibito a deposito di botti, o ricavare sul fronte
della casa una veranda dove sistemare il mio studio di pittura.
Tutto questo mi dà l'idea di un impegno metodico, continuo,
sempre uguale eppur sempre diverso". Proprio come i ritmi
che, da sette anni esatti, con ogni tempo e in ogni stagione,
cadenzano le sue giornate: la sveglia alle 5 del mattino, poi la
contemplazione del paesaggio (quasi a voler riempire il cuore e i
polmoni di tutta quanta l'aria di Sicilia), poi l'ascolto, per una
mezz'oretta buona, di musica classica. Seguono lo yoga e la
meditazione; poi, alle 7 e 30 precise, la colazione, quindi il
lavoro fino all'una. Dopo pranzo, immancabile, il riposino
pomeridiano, e poi ancora il lavoro dalle 3 alle 8 di sera. E solo
a questo punto Battiato si concede una cena frugale, il rito del
Telegiornale, la visione di un film in cassetta.
Signor
Battiato, quanto è cambiata la sua vita dal giorno in cui ha
deciso di trasferirsi qui?
"Quanto
non so, come pure non so se questa scelta sia da considerarsi
irreversibile. Quello che invece so per certo è che ho
abbandonato Milano non per idiosincrasia della metropoli: ma perché,
a un certo punto della mia vita, ho sentito impellente la necessità
del silenzio, la voglia di avere spazi più ampi a mia totale
disposizione. Non ho difficoltà ad ammettere che Milano ogni
tanto mi manca: i suoi teatri, i suoi cinema, qualche concerto,
l'appuntamento pomeridiano al bar per un cappuccino. Ma qui non ho
distrazioni di sorta, una passeggiata nel mio giardino per
respirare il profumo dei gelsomini mi tonifica completamente, la
vista del mare mi dà sensazioni di quiete difficili da descrivere
con le parole. Sono felice, insomma".
Da
quando è qui, lei ha deciso di affiancare all'attività di
musicista anche quella di pittore: pittore di icone, soprattutto.
Come è nata questa passione?
"Più
che una passione, direi che quella della pittura è stata una
necessità. La necessità di porre rimedio a un difetto troppo
grande: la mia totale incapacità di fare qualsiasi cosa con le
matite e i pennelli, il mio blocco di fronte alla trasformazione
di una cosa vista in una cosa trasposta su tela. Quella della
pittura è stata una sorta di sfida con me stesso. E ora - che i
miei dipinti piacciano oppure no - credo di poter affermare di
averla vinta, questa sfida. Ora so che cos'è la prospettiva, ora
ho capito che la pittura e la musica occupano dimensioni
totalmente diverse, anche se complementari, nella mia mente e nel
mio cuore".
Altra
singolare coincidenza: sono molti anni che lei pratica il sufismo,
ma solo da quando è qui ha deciso di rendere pubblica ed evidente
la sua fede religiosa. Come mai?
"E'
molto semplice. Pur senza voler convincere nessuno -
l'indottrinamento non fa certo parte del mio bagaglio filosofico e
culturale - trovo che non sia male lanciare segnali evidenti di un
certo genere di testimonianza. E' un modo di dire a chi ti segue e
a chi ti apprezza: 'Stai all'erta, qualcosa in te può cambiare'.
Così come è cambiato in me".
Mi
tolga una curiosità, e mi perdoni la banalità della domanda: che
cosa l'ha spinta a "scegliere" il sufismo in luogo - che
so - del buddismo o della teosofia?
"Direi
che l'ho abbracciato per una questione di vicinanza, per quella
sorta di illuminazione che ti pervade quando ti accorgi di aver
trovato proprio quello che andavi cercando. In altre parole, io
sono legato al sufismo perché ho scoperto che il mio mondo
interiore è assolutamente uguale a quello dei mistici sufi, in
particolare per quel che riguarda la concezione della
sofferenza".
La
sofferenza?
"Sì,
proprio la sofferenza. Da non intendersi nell'accezione 'normale'
del termine, come quel 'qualcosa' che in genere pervade i rapporti
di coppia e provoca le liti e le rotture coniugali: ma, semmai,
nel suo senso più universale e trascendente, vicino a quello
stato che generalmente viene classificato come 'angoscia'. Bene,
questo sgomento, quando sopravviene, implica una totale inabilità
nei confronti delle faccende della vita, impedisce ogni
comprensione di quel che sta succedendo. E, quando viene portato
alle conseguenze estreme, assomiglia a una tempesta cosmica che si
abbatte su un individuo inerme: totalmente incapace di sopportare
anche una briciola minuscola del suo furore. Proprio questo tipo
di sofferenza, che più volte ho sperimentato sulla mia pelle, è
stato il tramite che mi ha avvicinato al sufismo".
E'
a questo tipo di sofferenza che si è ispirato per scrivere
"Il Re del Mondo", la canzone che prende a prestito il
titolo di un famoso saggio di René Guénon?
"Direi
di no: perché 'Il Re del Mondo', pur descrivendo una situazione
assolutamente opprimente, è, tutto sommato, una canzone
abbastanza serena. Direi anzi che l'unico riferimento a una
sofferenza come quella che ho tentato di descrivere in precedenza
si trova in una canzone del mio ultimo album, "Lode
all'Inviolato". Nel passo dove canto: 'Ne abbiamo
attraversate di tempeste, e quante prove antiche e dure...'".
Sempre
da questo punto di vista, una canzone prettamente politica come
"Povera patria" sembra quasi anomala, nella sua
produzione...
"Infatti
è proprio così. A pensarci adesso, avrei preferito non farla:
perché la 'politica' non è proprio il mio mestiere. Ma ci sono
stato costretto per l'indignazione che provavo - e che tuttora
provo - di fronte alla volgarità dei politici. Una volgarità che
mi fa realmente orrore, e che si manifesta nella totale
insensibilità per le esigenze degli altri".
Che
cosa la spinge, dunque, a scrivere musica? Musica così diversa,
fra l'altro?
"E'
molto difficile rispondere a questa domanda. Perché si tratta di
una sorta di 'necessità arcaica': di un qualcosa che preesiste a
me, e che utilizza qualsiasi tipo di linguaggio, dal canto
gregoriano fino al techno-pop, per comunicare a chi ascolta i miei
sentimenti. Però, aldilà delle differenze formali, ciò che
trovo invariabilmente presente in tutti i miei lavori, da quelli
'avanguardistici' degli anni Settanta fino alla mia recentissima
'Messa arcaica', è una ricerca costante della bellezza,
dell'armonia, della fluidità delle soluzioni che si muovono
all'interno di ogni linguaggio prescelto. Perché sono
assolutamente sicuro che per comunicare certi sentimenti, certe
emozioni, certe opzioni del cuore, è necessario seguire strade
ben definite".
Strade
come quelle della "Messa arcaica", per esempio?
"Sì.
E quest'esperienza, fra l'altro, è stata per me estremamente
significativa anche per altri motivi. Perché, per esempio, mi ha
insegnato quanto sia strano questo nostro mondo musicale: dove
capita di essere al centro di un tifo da mega-concerto rock anche
quando si suona in una chiesa, anche quando si esegue un'opera che
si muove lungo un tenuissimo filo orizzontale. Tutto questo è
molto gratificante, intendiamoci: ma è certo che non mi sarei mai
aspettato di vedere il Duomo di Orvieto trasformarsi in una sorta
di Palasport, al termine dell'esecuzione...".
Si
aspetta di scatenare un "tifo" del genere anche con la
nuova opera che sta componendo, il "Federico II di
Svevia"?
"E'
un po' troppo presto per dirlo, anche perché questa è un'opera
'sui generis': il libretto di Manlio Sgalambro, uno dei massimi
filosofi italiani, prevede infatti molte parti recitate, e
soltanto alcuni monologhi commentati da orchestra e coro. Il
debutto è previsto il 20 settembre prossimo, nella Cattedrale di
Palermo, con l'Orchestra Sinfonica Siciliana diretta da Gabriele
Ferro. Diamoci un appuntamento lì, per vedere l'effetto che
fa".
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