“welcome back” a quel distinto signore di 68 anni appena compiuti (il 3
novembre scorso, per la precisione) che nascondeva tutta la sua timidezza, tutta la sua emozione, dietro il ventre voluminoso del suo contrabbasso luccicante. La storia di Henry Grimes - perché è di lui che stiamo parlando - comincia proprio in questi giorni a essere sufficientemente nota, ma conviene ugualmente ricostruirla, almeno a grandissime linee. Perché pare tratta di peso dal film di Frank Capra “La vita è meravigliosa”. Perché pare un manuale di sopravvivenza redatto a uso e consumo delle giovani generazioni, affinché non si arrendano di fronte alle prime difficoltà della vita: per quanto insuperabili possano apparire.
E dunque, l’avevano dato tutti per morto, Henry Alonzo Grimes da Philadelphia. Alcuni, come la scrittrice Valerie Wilmer, nel 1971. Altri, più benevoli, nel 1984. Scomparso nel nulla di chissà quale altra galassia, dopo aver partecipato a centinaia di concerti, jam session e registrazioni varie fra la fine dei Cinquanta e tutti i Sessanta, con gente che ha fatto la storia del jazz: Benny Goodman e Gerry Mulligan, Sonny Rollins e Stan Getz, Thelonious Monk e Tony Scott, Albert Ayler e Don Cherry. Ma per buona fortuna di Henry, c’è anche chi non crede a questa verità, tanto di comodo da sfiorare la leggenda metropolitana. Il tipo in questione si chiama Marshall Marrotte, e fa l’assistente sociale ad Athens, la città della Georgia famosa in tutto il mondo grazie ai Rem. Lui racconta di essere stato folgorato da Grimes nel 1986, quando, entrato in un negozio di dischi di New Orleans, gli capitò di ascoltare “The Call”, l’unico album da leader mai inciso da Henry: «Gesù, le note emesse da quel contrabbasso mi misero letteralmente KO. Comprai il disco - il mio primo disco di jazz - e uscii in strada col capogiro: ero letteralmente disfatto. E dopo che mi fui ripreso, cominciai immediatamente a informarmi su quel fenomeno di contrabbassista. Sentii le cose più strane: che era morto nel 1971 o nel 1984, che aveva abbandonato la musica e si era fatto prete, che aveva seri disturbi mentali, che viveva in mezzo a una strada, che s’era fatto i capelli verdi, che si era messo a suonare il basso elettrico in una rock band... Tutte cose che non facevano altro che enfatizzare le qualità eteree della sua musica».
Ed è così che, lo scorso anno, dopo molto tempo speso a lambiccarsi il cervello su postulati di chiara derivazione New Age - «a nulla c’è mai una vera risposta, la verità è sempre un qualcosa di molto relativo: tutto ciò che esiste dimora nel qui e ora!» - Marshall Marrotte decide di passare all’azione. Si mette a spulciare tutti i reperti più minuti relativi alla “scomparsa” di Henry Grimes: carte di tribunali, certificati di morte, racconti di musicisti e amici, archivi di giornali e di preture sparse in ogni angolo degli States, contatti con la famiglia del “disperso”, ci manca solo che scriva alla redazione di “Chi l’ha visto?”... E dopo mesi e mesi di lavoro certosino, sorretto dalla fede che solo un fan assoluto e integerrimo può nutrire, alla fine lo rintraccia: in un polveroso alberguccio di South Central, Los Angeles. E allora gli chiede perché mai sia sparito nel nulla, e che abbia mai combinato in tutto questo periodo più lungo della Guerra dei Trent’anni. E Grimes, tranquillo, gli risponde che con il jazz non riusciva a campare, e che nessuno l’aveva mai voluto ingaggiare come attore di teatro, e che perfino il suo amatissimo contrabbasso aveva dovuto vendere, per raggranellare quattro soldi. Dopo di che, aveva dovuto arrangiarsi con qualche lavoretto precario e con il sussidio miserabile della Social Security. Tutto lì.
Ora, gli “atti del ritrovamento” sono interamente disponibili sul sito
www.allaboutjazz.com, e contengono alcuni momenti assolutamente toccanti. Per esempio, l’enorme commozione nell’apprendere che moltissimi dei suoi antichi sodali - i vari Albert Ayler, Don Cherry, Ed Blackwell, Sonny Sharrock, Call Cobbs, Billy Higgins, Jimmy Lyons, Charles Moffett, David Izenzon - sono tutti morti: «Oddio, che brutta notizia... E’ terribile!». Oppure il ricordo, ancora vivissimo, dei suoi problemi mentali: «Sono andati avanti per un po’, e sono anche stato all’ospedale. Mi era stata diagnosticata una sindrome maniaco-depressiva, che mi curavano con un farmaco, la Torazina. E’ stato molto brutto, sono stato depresso per molto tampo. Ma ora, per fortuna, sto bene!». Oppure le sue impressioni su Albert Ayler, un Immortale del jazz (e non solo) troppo a lungo misconosciuto: «Albert era un improvvisatore fantastico, un musicista meraviglioso. Aveva idee dell’altro mondo, che gli venivano dappertutto. Abbiamo suonato insieme tanto, in jam session, e Albert produceva tutti questi suoni... La sua musica aveva un grande elemento spirituale, ma io non volevo esserne preso troppo e strasuonare, strafare... capisci?».
Capito, certo. E forse proprio per questa voglia tuttora immanente di discrezione, di non strafare e non strasuonare, il concerto del Grande Ritorno, domenica 7 dicembre, è stato un vero e proprio miracolo di equilibrio, di compostezza, di stile. Sul suo contrabbasso nuovo di zecca, regalatogli dal giovane collega e ammiratore William Parker, Henry Grimes è arzillo e poderoso come ai vecchi tempi, e forse anche di più. Il suo antico collaboratore di “The Call”, il clarinettista bianco Perry Robinson, è lieve e sognante proprio come ce lo ricordavamo in quella vetusta registrazione del 1965. E il batterista che ha preso il posto di Tom Price è addirittura il leggendario Andrew Cyrille, uno dei più grandi percussionisti viventi, collaboratore per anni e anni di Sua Maestà Cecil Taylor. Insieme, i tre fanno meraviglie sublimi, prendono assoli a dir poco stratosferici (soprattutto Andrew Cyrille, che a un certo punto si mette a tenere il tempo picchiettandosi le gote con le mani!). Non sorprende dunque che la riproposizione di “The Call” suoni ancor oggi fresca e attualissima, densa di un pathos e di un’emozionalità da brividi: come se non fossero passati quasi quarant’anni dalla sua prima (e finora unica) realizzazione. Ma forse ha proprio ragione il prode Marshall Marrotte quando esclama che «tutto ciò che esiste dimora nel qui e ora!». Ne terremo conto. |