David Sylvian e i suoi prodi (suo fratello Steve Jansen alle
percussioni e all'elettronica,
Matt Cooper alle tastiere, Tim Young alle chitarre e Keith Lowe al contrabbasso acustico e al basso elettrico) stanno sul palco da ormai quasi due ore, e stanno per intonare le note maliconiche e alquanto cupe di "Wanderlust", che è poi il terzo bis della serata. E allora, direte voi a questo punto: che c'è di strano in tutto questo? Detto in tutta onestà, proprio niente di niente. Ma il fatto è che David Sylvian, per una bizzarra combinazione di scaramanzia e di indolenza performativa, quasi mai concede un terzo bis: lo fa soltanto se il suo pubblico si spella le mani per cinque minuti filati, e fa la "ola" da un capo all'altro della platea, e lo richiama sul palco con una serie infinita di urletti e gridolini. E' proprio quanto succede la sera di lunedì allo Smeraldo. E questo è il particolare che meglio di ogni altro riesce a descrivere un concerto più unico che raro, equamente diviso fra la flemmaticità quasi zen di chi sta sul palco (dove l'unico un po' fuori registro è il tastierista Cooper, che si dimena e agita il testone riccioluto quasi fosse alle prese con tante "Honky tonk women" dei Rolling Stones) e l'entusiasmo al calor bianco del pubblico in sala: generoso come pochissime altre volte di incitamenti, ululati e gridolini di gioia.
Mancava dall'Italia da sei anni abbondanti, David Batt (in arte David Sylvian): cioè da quando vi era giunto in compagnia di uno dei suoi più grandi méntori, il chitarrista Robert Fripp._E non è certo un caso che proprio in questi giorni sia uscita in tutto il mondo, per i tipi della Virgin, la riedizione, opportunamente remixata dallo stesso Sylvian, di "Damage", il disco "live" registrato durante quel memorabile tour. Mancava da sei anni, dunque, e ora vi fa ritorno (altre date sono previste nei prossimi giorni a Bologna, Roma, Verona e Venezia) non tanto per riprendere i temi di "Damage", troppo impregnati di volatile spirito frippiano per essere rivisitati in perfetta solitudine, quanto, piuttosto, quelli di "Everything and nothing", la doppia antologia data alle stampe un paio d'anni fa. E la tournée, infatti, proprio da "Everything and nothing" prende a prestito il titolo, oltre che la sensibilità e la profonda Weltanschauung. E il concerto, infatti, prende le mosse proprio dalle prime due song contenute nell'antologia, "The scent of magnolia" e "Heartbeat": per dare fin da subito un'idea di massima - ammesso che ce ne sia il bisogno, visto che il pubblico è interamente composto da sylvaniani convinti - di quel che succederà più tardi.
Le luci sono soffuse, i colori tenui e discreti, le immagini che si accavallano sul telone in fondo al palco tanto rilassanti e accattivanti... da consigliare di seguire il concerto a occhi chiusi. Bell'idea, da acchiappare al volo. E subito, come un flash, ecco che ci ritorna alla mente la feroce stroncatura dedicata all'ex leader dei Japan da uno dei massimi guru della critica pop contemporanea, Piero Scaruffi: "Disco dopo disco, Sylvian sta dimostrando di essere semplicemente un artista di dubbio talento e di idee alquanto limitate: peraltro ripetute testardamente fino alla nausea". Ohibò, che inutile protervia! Sarà la magia della serata, saranno gli occhi chiusi, sarà il dolcissimo sciabordìo di riflessi e ombre che di quando in quando riesce a intrufolarsi fra le palpebre abbassate, ma a noi pare proprio che quelle "idee limitate" siano in realtà intuizioni strettamente correlate con una concezione quasi mistica, a tratti ipnotica, della reiterazione. Sono magari poche frasi di sintetizzatore, quietamente sostenute da magnetici giri di basso e da percussioni spesso accarezzate con i feltri, sulle quali si innesta la strepitosa voce di Sylvian. Che già da tempo ha abbandonato al loro destino le ottave più alte per privilegiare tonalità più gravi, "interne", quasi discorsive. Di modo che il suo canto sembra un flusso vitale che continuamente si dipana fra il sogno e la veglia, e chi è depresso di suo (come la giovane signora che ci sta seduta a fianco) lo scambia per un perpetuo entrare e uscire dall'anticamera dell'angoscia, e chi invece sta benone (come la stragrande maggioranza del pubblico in sala) lo prende e lo assimila per ciò che realmente è: una sorta di "healing chant", di intervento terapeutico con l'uso della voce, impregnato di meditazione, di spiritualità, di vibratile senso della trascendenza.
E' così che, una dopo l'altra, si susseguono svariate perle del canzoniere sylvaniano: "Godman", "I surrender", "Jean the birdman", "Midnight sun", "Orpheus", "Waterfront", tante altre ancora. Tutte minimaliste e quasi salmodianti, pregne di una pace e di una rilassatezza che i biografi dell'artista inglese fanno risalire al 1992: anno del trasferimento negli States e del fulmineo matrimonio con la splendida cantautrice Ingrid Chavez. Sarà certo così, non lo mettiamo in dubbio. Ma altrettanto certo è che esiste una sapienza antichissima, un'armonia "precedente", dentro queste canzoni così soavamente semplici: lo si intuisce in particolar modo quando Sylvian inizia ad accarezzare le sue song di più spiccata ispirazione orientale, i magnifici canti devozionali di "Krishna blue" e "Bhajan". Che precedono "Wanderlust", il terzo bis che - come si diceva - solo in serate eccezionali mister Batt elargisce ai suoi fedeli. E questa, per buona fortuna di tutti, è proprio una di quelle serate. |