la platea del CinemaTeatro di Chiasso in una succursale di Salvador de Bahia, con temperature assai più vicine ai 40 che ai 30, un’afa opprimente, centinaia di bottigliette di acqua e gazosa tracannate in un istante (peccato che mancassero le palme e il mare, altrimenti la similitudine sarebbe stata perfetta). E comunque faceva talmente caldo, giovedì sera, a Chiasso, che perfino Marco Galli (una delle menti creative della rassegna, insieme a Paolo Belli e Tiziana Conte), nel breve discorsetto introduttivo si è lasciato andare a una condivisibilissima confessione: «L’anno prossimo presenteremo in boxer!». E anche il grande Vinicius, che pure a queste calure (e a questo tasso di umidità) dovrebbe essere perfettamente abituato, è stato colto in contropiede. Tanto da chiudere il primo tempo del concerto dopo 45 minuti appena, «per andare a bere una bottiglia d’acqua, e magari anche un caffè». E fra una canzone e l’altra salutava il pubblico osannante alzando il bicchiere: colmo non di vino, come avrebbe fatto il Guccini dei tempi d’oro, ma di acqua frizzantina assai gelata.
Premesso tutto questo a onor di cronaca (e di calura), passiamo rapidamente al concerto e ai suoi meravigliosi protagonisti. Che, a quanto pare, erano già da tempo nel mirino degli organizzatori di Festate, ma che solo quest’anno si sono materializzati fra di noi in carne e ossa. Disponendosi sul palco - curiosamente - a semicerchio, con i due primattori alle estremità: Vinicius Cantuària sulla sinistra, e il sognante trombettista Michael Leonhart sulla destra. Sullo sfondo operavano invece il bassista e i due straordinari percussionisti, Mauro Refosco in primis, e al centro, nel luogo in genere riservato al front-man... il nulla più assoluto. Un Nulla degno dell’indimenticabile Conferenza di John Cage, che ognuno poteva ovviamente riempire con i propri desideri e le proprie intuizioni. E che in ogni caso dava l’idea esattissima del modo con cui, da sempre, Vinicius Cantuària concepisce la sua musica. Un modo molto comunitario e democratico, in cui le intuizioni dei singoli si sviluppano in cerchio, corroborandosi reciprocamente di energie e folgorazioni, e in cui lui, Vinicius, neanche per un istante pensa di essere il “lìder maximo”. Semmai un “primus inter pares”, e lo dimostra, anche visivamente, collocandosi con la sua chitarra in un cantuccio del palco, defilato e discreto, come per sfuggire agli eccessi di attenzione che un front-man sempre attira su di sè. E che è l’inevitabile conseguenza della Weltanschauung sottesa a “Vivo isolado do mundo”: la meravigliosa canzone di Alcides Dias Lopes che Vinicius ha ripreso nell’album
“Tucumã”, e che ha trasformato in un manifesto esistenziale di sublime bellezza (oltre che in uno dei suoi cavalli di battaglia prediletti).
Giovedì sera, curiosamente, Vinicius non ha ripescato “Vivo isolado do mundo” dal suo sterminato canzoniere. Ha però ripreso alcuni classici di “Sol na cara”, il suo primo album internazionale: citiamo (a memoria) “Sem pisar no chao”, “Samba da estrela” e “O nome dela”. E poi alcune cose - “Amor brasileiro” e “Aracajù” - da
“Tucumã”. E poi, ancora, qualche “must” del suo ultimissimo lavoro, “Vinicius”, zeppo di ospiti di grandissimo lignaggio: Caetano Veloso, Bill Frisell, Brad Mehldau e Marc Ribot, tanto per citare i primi che ci vengono in mente. Ed è proprio su una delle canzoni-inno di quest’ultimo album, “Ela é Carioca”, che Vinicius ha invitato il pubblico entusiasta a cantare insieme a lui il ritornello orecchiabilissimo: l’ha fatto nella sua maniera molto timida e discreta, da autentico Lord del samba, mica come quei rockettari cafoni che quando chiedono ai fans di seguirli lungo un riff sembra che li vogliano violentare. L’ha fatto mentre i suoi formidabili compagni d’avventura aumentavano e diminuivano in continuazione il tempo della canzone, e Michael Leonhart cavava dalla sua pocket trumpet - un po’ à la Don Cherry, per intenderci - meravigliosi sussurri e sognanti cacofonie futuristiche, dando all’intero materiale musicale l’andamento di un’onda lunghissima. L’onda - a volte sonnacchiosa, a volte inarrestabile - del caldo mare di Bahia.
Sarà forse per questo - per questa “saudade” che lo coglie all’improvviso, come un compito in classe senza preavviso - che Vinicius sostiene, in tutta coerenza, di sentirsi molto più brasiliano quando è lontano dal Brasile: per esempio a New York, dove ormai vive abitualmente, che lo spinge «a fare una musica che è la quintessenza della brasilianità». E se n’è avuto un esempio - mirabile, addirittura commovente - quando, dopo un incipit tirato fino al calor bianco, è andato a riprendere le note delicatissime di uno dei capolavori di Antonio Carlos Jobim, “O barquinho”: e le ha accarezzate con una soavità che non aveva nulla da invidiare a quella, ormai proverbiale, di João Gilberto. E se n’è avuto un altro esempio nel mirabile mélange di samba do Brasil e salsa de Cuba proposto all’inizio del secondo tempo. Quando, a sorpresa, ha attaccato “Cubanos postizos”: forse un omaggio, straordinariamente ispirato, all’amico chitarrista Marc Ribot, che qualche anno fa, proprio con i Cubanos Postizos, ha concepito uno dei suoi album migliori. Glielo chiederemo certamente, prima che faccia ritorno a New York. E, per il momento, godiamoci ancora il ricordo di questo concerto memorabile, che ha aperto come meglio non si sarebbe potuto la tredicesima edizione di Festate. Evviva! |