Forse
è un po' troppo presto per azzardare previsioni di ampio respiro. Ma
è quanto mai probabile che questi anni Ottanta appena terminati, dopo
il crollo dei regimi comunisti dell'Est europeo e la rapidissima
dissoluzione di quell'"edonismo reaganiano" che per una
lunga stagione ha egemonizzato il narcisismo post-ideologico
dell'intero mondo occidentale, lascino in eredità ai Novanta in piena
fase di allestimento anche un altro "cadavere eccellente":
quello dei teen-ager dell'Occidente industrializzato.
Intendiamoci bene, al fine di evitare inutili equivoci. La
"morte" (del teen-ager) di cui stiamo parlando, al contrario
di quanto è avvenuto a Bucarest e a Timisoara, non ha proprio nulla
di fisico, di corporeo e concreto: al contrario, dispiega i suoi
effetti - totalmente indolori - nell'universo dei simboli e delle
metafore. Ma non per questo deve essere considerata meno sconvolgente,
generalizzata e definitiva: soprattutto da parte di chi ha sempre
visto nei fenomeni della sottocultura giovanile, nella formazione di
bande fra loro contrapposte e rivali (rocker e mod, punk e skinhead,
dark e teddy-boy, della prima e seconda generazione) uno dei tratti
caratterizzanti dei decenni compresi fra i tardi Cinquanta e tutti gli
Ottanta. Tratti che, ora, rischiano di andare perduti per sempre; e di
lasciare in eredità i propri elementi distintivi, le proprie
peculiarità più appariscenti e spettacolari, a una sorta di Museo
degli Orrori del giovanilismo di fine millennio.
Quella che abbiamo appena esposto è, in rapidissima sintesi, la tesi
di fondo elaborata negli ultimi anni da Dick Hebdige, quarantenne
professore di Comunicazioni al Goldsmiths College dell'Università di
Londra, che alla sfaccettatissima complessità dell'universo giovanile
ha già dedicato tre libri: "Subculture: the meaning of
style", del 1979, per i tipi della londinese Methuen & Co. (e
pubblicato anche in Italia, nel 1983, da Costa & Nolan, col titolo
di "Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale") e i
recentissimi "Cut 'n' mix" e "Hiding in the
light", entrambi editi dalla Routledge di Londra.
Professor
Hebdige, sono passati ormai più di dieci anni dalla pubblicazione del
suo primo lavoro. Che cosa è accaduto di rilevante, nel frattempo,
nell'universo dei teen-ager?
"Direi che, oggi, soprattutto in campo musicale (che è poi il
punto focale di quella che io chiamo 'sottocultura'), le differenze e
le diversità siano maggiori che in passato. Ma, contemporaneamente,
sono anche dell'opinione che la coerenza che esisteva nei gruppi di
sottocultura del passato non sia più tanto evidente. In definitiva,
siamo in presenza di una maggior diversità e di una coerenza pressochè
nulla. E' dunque difficile, sempre più difficile, poter parlare di
una singola dominante, cioè di una sottocultura che trova il suo
punto focale nella musica: e questo è in parte dovuto al fatto che la
televisione, e con lei l'industria dei video musicali, hanno fornito
una serie di risorse prima insospettabili, mettendo insieme suono e
immagine. Dunque, l'idea stessa di una sottocultura che emerge
gradualmente, e che risulta abbinata a un luogo particolare o a una
classe particolare, è un qualcosa che sempre più difficilmente
riesce a seguire l'iter di una decina di anni fa.
Per capire le differenze, proviamo a fare un rapido passo
all'indietro. Lo schema tradizionale - stabilito durante gli anni
Sessanta e Settanta - significava emergere, trovare e fondare delle
società e dei club, tutti coesi attorno agli stessi interessi
musicali. Significava poi, magari dopo due o tre anni, essere
conosciuti dalla stampa: e diventare subito - se mi passa il termine -
un 'simbolo quasi morale' dell'universo giovanile. Ora tutto questo
iter non esiste più: ora, questo intero ciclo di sottocultura è
diventato molto più rapido, perchè nuove tendenze e nuovi stili
appaiono in continuazione. Il risultato è che l'idea stessa di una
sottocultura contrapposta alla cultura dominante non è più
sostenibile in alcun modo. Infatti, la cultura generale è oggi
talmente pervasa da immagini alla moda, dallo stile e dal design, che
si può quasi dire che tende essa stessa a divenire sottocultura. Con
tutte le conseguenze del caso".
E'
da queste considerazioni che ha tratto le sue ipotesi relative alla
"morte del teen-ager"?
"Anche da queste, è evidente. Ma direi che la scomparsa dei
teen-ager si riferisce soprattutto a una sorta di mitologia
giovanilistica apparsa per la prima volta verso la fine dei Cinquanta:
una mitologia che coincise con l'importazione dagli Stati Uniti del
concetto - americano al 100 per cento - di 'delinquenza giovanile'.
Questo da un lato. D'altro canto, l'idea di 'mercati per giovani' in
continua, rapidissima espansione - potrei definirli, forse meglio,
come dei 'laboratori per lo scambio culturale' - trasformò la gioventù,
subito dopo la guerra, in una sorta di metafora per il cambiamento
sociale. In altri termini, domande tipo 'quale sarà l'aspetto della
nuova società?', 'che cosa dobbiamo fare per non ripetere gli errori
tragici del passato?', individuarono nei giovani, quasi fatalmente, il
loro punto focale. Ora, il fatto che i teen-ager siano 'morti' si
riferisce all'esaurimento assolutamente evidente di questa mitologia:
che non possiede più quella capacità trainante, così esplicita e
chiara nei decenni compresi fra la fine dei Cinquanta e l'inizio degli
Ottanta".
Per
quali ragioni, secondo lei?
"Innanzi tutto, per ragioni squisitamente demografiche. Ormai il
'baby boom' si è completamente esaurito, il calo delle classi
giovanili di età - intese in senso demografico - è quanto mai
vistoso: e non è un caso che sia il marketing che la pubblicità
trovino sempre meno interessante il mercato giovanile. E si orientino,
di conseguenza, verso altre fasce di consumo: innanzi tutto quella dei
'wooffies' e dei 'dinkies', come dire le coppie a doppio reddito senza
figli; poi gli anziani, che saranno il vero punto focale delle società
industrializzate del Duemila; infine gli 'yuppies', che sono stati il
mito del decennio appena terminato, gli eroi di una fascia d'età -
compresa fra i venti e i trent'anni - infinitamente più affluente da
un punto di vista finanziario.
Come vede, dunque, anche quando continuano a parlare di 'giovani', il
marketing e la pubblicità prendono in considerazione solo quelli
provvisti di una maggior disponibilità finanziaria. Fino a dieci anni
fa (e a maggior ragione prima) la tendenza dominante era quella che
sottolineava il giovane addobbato con i jeans della Levi's: oggi, al
contrario, la tendenza è quella di mettere in luce le famiglie
adulte, i genitori sui cinquant'anni (ma quanto 'giovanili', però...),
i fruitori di un reddito elevato. Perfino gli infanti dai 6 ai 9 anni,
se hanno un senso (e lo devono avere per forza) le trasmissioni del
sabato mattina della BBC o di Channel 4. Sono questi, in definitiva, i
nuovi 'gruppi leader': che hanno 'costretto' il teen-ager di una volta
a perdere terreno, sia da un punto di vista culturale che finanziario.
Ed è questa l'eterna legge dei cambiamenti, degli spostamenti
economici da una sezione di mercato all'altra".
Professor
Hebdige, lei diceva, in precedenza, che la gioventù è sempre stata
considerata come "la metafora del mutamento sociale". Ma ora
questa metafora si sta esaurendo, ha perso rilevanza anche da un punto
di vista dell'"immagine" e dell'"appeal". Quali
"eventi strutturali", secondo lei, hanno contribuito a
intaccarla alle radici in maniera tanto vistosa?
"Direi che 'metafora' e 'mutamenti strutturali' sono
profondamente interconnessi fra di loro. Infatti, non si tratta
soltanto di inventare nuove mitologie: si tratta, soprattutto, di
individuare i cambiamenti sopravvenuti sia sul mercato del lavoro che
nella struttura del reddito. In altre parole, uno degli elementi sui
quali si fondava - negli anni Cinquanta e Sessanta - il mercato dei
teen-ager, era l'idea che la scuola venisse abbandonata in giovane età,
diciamo verso i quindici anni: poi sopravveniva una breve parentesi -
di cinque, sette anni al massimo - che collegava la chiusura della
carriera scolastica con il matrimonio. Bene, nel corso di questa
parentesi - come ben si evince dal film 'Quadrophenia', assolutamente
esemplare nella sua capacità di descrivere il microcosmo
teen-ageriale londinese dei primi Sessanta - i giovani lavoravano
(quasi sempre manualmente), guadagnavano denaro (magari non
moltissimo: ma certo più che sufficiente per le loro esigenze, visto
che continuavano a vivere in famiglia), e avevano, nettissima, la
percezione di essere totalmente liberi da ogni sorta di
coinvolgimenti, da ogni obbligo inerente all'uso (privato) che
potevano fare del denaro guadagnato.
Ora, dopo la recessione dei primi anni Ottanta, la disoccupazione
giovanile ha raggiunto livelli mai visti in precedenza. E se è forse
sbagliato dire che il potere d'acquisto dei giovani, nel loro
complesso, è minore di quello di vent'anni fa, è però certo che il
meccanismo costruito sull'equazione fra 'lavoro' e 'libertà di spesa'
si è definitivamente rotto. Anche per questo i giovani, intesi come 'classe',
hanno perso potere.
Non bastasse, gli anni Ottanta - soprattutto nei paesi dell'Europa
occidentale - sono stati caratterizzati da un nuovo tipo di
conservatorismo: e anche questo ci dà l'idea di quanto la 'rivolta
giovanile', e i cambiamenti sociali a questa connessi, abbiano perso
la loro importanza primigenia. Ora, lo 'stile di vita' (che un tempo
era una prerogativa pressochè assoluta del teen-agerismo) non ha più
limiti di età, e la metafora della gioventù si è trasformata
brutalmente in un'identità di pura consumatrice di cultura. Per dirla
in altri termini, gli Ottanta sono stati il decennio in cui il
concetto di 'mercato di massa' è diventato complesso in virtù dello
sviluppo di numerosissime 'nicchie di mercato', e di differenze
culturali assolutamente gigantesche, e di un 'pluralismo culturale'
dapprima sconosciuto.
Questo significa, nè più nè meno, che il consumatore medio è
costantemente sfidato da queste differenze, e tutto questo ha anche a
che fare con il riconoscimento che la Gran Bretagna è, ormai, un
paese post-coloniale: dove le differenze di cui parlavo sono
immediatamente visibili, palpabili, sia in termini di età che di
classe sociale. Per esempio a Stoke Newington, il quartiere dove vivo,
ci sono turchi, indiani, irlandesi, neri dei Caraibi, tantissime altre
razze: e si ha, nettissima, una sensazione come di implosione del
mondo intero all'interno degli spazi metropolitani dell'Europa
occidentale. Tutto questo, dunque, serve a creare ulteriori differenze
- etniche, oltre che di età e di classe: che possono far sorgere
l'idea di una sorta di battaglia generazionale universale. Detta così,
la cosa sembra semplice: ma non lo è per nulla! Anche perchè un 'melting
pot' di razze e di etnie come quello che mi vive accanto, non è
prerogativa assoluta di Londra e della Gran Bretagna: al contrario, è
una 'costante metropolitana' valida a Parigi come ad Amburgo, a
Stoccolma come a Napoli".
E'
vero. Ma questo "melting pot", in nuce, esisteva già negli
anni Sessanta. Non a caso i mods - e lei, a quanto mi risulta, è
stato un mod: della "prima generazione" - hanno sempre
avuto, quasi come tratto costitutivo dei loro club, l'obiettivo
dell'interscambio culturale fra "comunità bianca" e
"comunità nera"...
"E' vero, sono cresciuto nell'era dei mods: ma devo anche dire,
per questioni di onestà intellettuale, di non essere mai stato molto
attivo nel gruppo. Anzi, di essere stato un pessimo mod. A parte
questo piccolo particolare - riconducibile al fatto che mentre andavo
a scuola non guadagnavo abbastanza denaro per poter essere un 'mod
doc', e che i miei genitori volevano a tutti i costi che frequentassi
l'università - non rimpiango nulla del mio passato: di aver
frequentato le scuole di Shepherd's Bush, il quartiere occidentale di
Londra che ha dato i natali ai Who, e di aver avuto per amici alcuni
dei mods più 'trendy' del periodo. Trovavo che la loro cultura fosse
molto interessante, fondata com'era sulla 'black music' e sullo 'stile'.
Oggi, se ci ripenso, la trovo invece un pochino 'ufficiosa': perchè,
in fin dei conti, ruotava tutta attorno ai simboli della Vespa e della
Lambretta. Soprattutto, la trovo squisitamente 'inglese': perchè è
parte integrante di quel mosaico che, ieri come oggi, fa 'il vero
inglese': il dandy, o come diavolo lo si vuol chiamare. Però è
altrettanto certo che, a un altro livello di consapevolezza, il
movimento mod denotava esplicitamente l'impazienza di tutti noi verso
quel modello di 'britannicità bianca' che ci era stato inculcato a
viva forza nelle teste. E dunque, se proprio devo trinciare un
giudizio sommario, mi pare certo che quello dei mod sia stato un
movimento 'quasi profetico'. Perchè ha segnato l'inizio delle danze
fra bianchi e neri".
Non
soltanto per questo, credo. Ma anche per il fatto che i "mods
della prima generazione" erano più fantasiosi, più ricchi di
immaginazione e di inventiva, dei loro epigoni di oggi...
"Non sono molto d'accordo. Vede, la 'morte del teen-ager' non
significa necessariamente che tutto sia finito, e che i teens di oggi
vivano anni privi di significato, siano diventati tutti conservatori,
vogliano soltanto possedere una bella casa, un buon lavoro, molti
soldi e una famigliola unita. Per quanto contradditorio possa sembrare
(ma non lo è), passeggiando oggi per Londra, e non soltanto per
Londra, si vedono maggiori differenze che in passato: si vedono,
soprattutto, mescolanze culturali arditissime, stili infinitamente più
cosmopoliti di quelli presenti negli anni Sessanta. E sono stili che
denotano un 'ibrido' stupendo, un delizioso 'non essere' nè bianco nè
nero. Tutto questo denota una fiducia assoluta, un'enorme capacità di
muoversi liberamente fra diversi mondi e diverse culture.
Ai nostri tempi - forse - per noi era necessario essere un mod o un
rocker: perchè questa collocazione ci dava forza e sicurezza. Oggi,
invece, i giovani vanno in tutte le direzioni: tanto che la musica che
ascoltano, enormemente più promiscua della nostra, potrebbe
tranquillamente essere definita un 'pool genetico', un'evoluzione
costante, una mutazione continua".
E'
vero, ma il senso della domanda precedente era anche un altro. E cioè
che - se non sbaglio - un tempo la fantasia (la creatività, per
utilizzare un termine ormai inflazionatissimo) era immediatamente
canalizzata in senso sociale. Oggi, invece, tutto avviene in senso
esattamente contrario: tutto è personalizzato, individualizzato fino
allo spasimo...
"Sì e no. Vede, quando scrivevo 'Subculture' ero del tutto
convinto che le comunità fossero inserite in un luogo particolare:
nel senso che - così pensavo - le origini di una sottocultura
avvantaggiavano determinate località, alcune aree particolari di una
città. Tant'è vero che, alla fine del mio lavoro, venne fuori in
maniera inequivocabile che l'East End londinese era stato il motore di
tutto: era quello il luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Più tardi però, in maniera altrettanto inequivocabile, quella
sottocultura cominciò a disperdersi in altri quartieri della città;
e poi, via via, su tutto il territorio britannico e sull'Europa
intera. Quindi, se ci si riesce a liberare di quello che io definisco
'il mito delle origini' - e ovviamente questo concetto è anche
strettamente correlato ai modi con cui oggi noi riflettiamo sulle
nostre teorie sulla cultura - si diventa non soltanto più aperti: ma
anche del tutto impermeabili alla specificità dei singoli luoghi di
riferimento.
L'esempio più calzante che mi viene in mente, a questo riguardo, è
dato dalla 'acid music': una musica che sembra aver definitivamente
cancellato il concetto stesso di 'comunità'. Ma, anche qui, bisogna
fare attenzione. Perchè, sulla base di parametri 'vecchi', le comunità
rappresentavano il cuscinetto fra individuo e stato, ed erano
associate a un'entità ben precisa, con radici stabili e durature. I
minatori, da questo punto di vista, erano sicuramente 'il massimo
della comunità'. Ma occorre tener presente che, nel corso del
lunghissimo sciopero di alcuni anni fa - uno sciopero che, certo, ha
distrutto tutto, e ci ha lasciato in bocca soltanto l'amaro per una
politica 'old style', e per un'identità altrettanto 'old style' -
anche la mitica comunità dei minatori ha subito trasformazioni
profondissime. Per esempio, dopo secoli di marginalità e di oscuro
lavoro domestico, le donne, le madri di famiglia, hanno finalmente
trovato un ruolo attivo: perchè la mobilità - da un paese all'altro,
da una miniera all'altra - cui l'organizzazione dei picchettaggi
costringeva i mariti, ha fatto sì che uscissero dalle loro case per
invadere le strade e le piazze.
Questo esempio che ho fatto - sulla resistenza dei minatori, sul loro
muoversi in continuazione da un luogo all'altro - è molto più vicino
alla 'acid music' di quanto si possa immaginare (di quanto si possa
immaginare applicando i soliti criteri analitici 'old style', intendo
dire). Anche nella 'acid music', nei party a base di 'acid music', il
concetto fondamentale è infatti quello della 'mobilità': tutti
vengono da tutte le parti, anche se l'impressione a prima vista è che
non vengano da nessun luogo. Ma - ciò che è ancor più importante -
si raggruppano in un luogo a mille e mille, creando così una comunità
transeunte ed emotiva: una comunità aggregata attorno a una musica
che non viene da un luogo specifico e ben identificabile, ma da mille
luoghi, dai Caraibi come dall'Africa, da Ibiza come da Londra e
Parigi.
Poi, finito il party, tutti scompaiono nel nulla: per ritornare alle
loro case, proprio come i minatori dopo il picchettaggio. Ma è
proprio inutile che i quotidiani - come già è capitato in passato -
facciano dell'inutile ironia su questi raduni 'acid': dicendo che, in
fin dei conti, sono zeppi di giovani 'nati con la camicia', che non
hanno problemi di occupazione, che desiderano soltanto divertirsi in
maniera edonistica. Dal mio punto di vista, anche questa è 'lotta
politica': perchè, seppur in termini del tutto nuovi, anche qui è in
gioco il diritto alla comunità. Il diritto di stare insieme per fare
ciò che si vuole".
Secondo
lei, professor Hebdige, siamo dunque alla presenza di un nuovo,
rilevante fenomeno. Chiusa per sempre la metafora legata al teen-ager
"old style", si apre un'allegoria del tutto diversa..
"Sono convinto che sia così. Perchè, se anche si può
considerare blasfemo il mio richiamo alla 'lotta politica' (e non c'è
alcun dubbio che i militanti 'old style' trovino assolutamente
oltraggioso tutto ciò), non v'è chi non veda come questa allegoria
sia utilissima per farci meditare sui nuovi termini di definizione di
una comunità, e sui rapporti - culturali, politici, di identità
spicciola - che si possono instaurare fra una comunità e l'altra. Un
esempio banalissimo. Oggi, per parlare di 'comunità', non si può
prescindere dall'etere, dal telefono e dai mezzi di locomozione: perchè
se non hai il telefono non puoi neppure sapere dove si svolgerà
l''acid party', e se non possiedi l'automobile non potrai mai
raggiungerlo. Come dicevo in precedenza, l'esempio è banalissimo: ma
rende a sufficienza l'idea - credo - di come le comunità
contemporanee siano molto meno sedentarie, molto più dinamiche, di
quelle del nostro passato. E, soprattutto, infinitamente più
aleatorie e imprevedibili".
(aprile
1990) |