(e non vergato dalla penna di Kusturica, sia ben
chiaro) che è “La regina Margot”, del 1994. Infatti, è
proprio commentando le immagini del suo caro amico Emir (ormai
ex e neanche tanto più caro, purtroppo), che il quasi
cinquantenne compositore di Sarajevo, figlio di madre serba e di
padre croato, ha messo a punto il suo stile inconfondibile,
ottenuto miscugliando con il fuoco della passione le fanfare
ottomane d’Ottocento con il rock dei giorni nostri, le
salmodie dell’Oriente musulmano con i canti della tradizione
zingara. Ma tutto questo, ovviamente, si riferisce al
“vecchio” Bregovic: quello anteriore alla rottura con
Kusturica, per intenderci. Perché il “nuovo” Goran, quello
che ha mutato pelle come un serpente al cambio di stagione, ha
per musa ispiratrice una fascinosissima cantante polacca, di
nome Kayah e di diciott’anni più giovane di lui, che l’ha
ammaliato fino al punto da ottenere di anteporre il suo nome a
quello del celebratissimo Maestro, nell’album registrato in
comunella. Che infatti si chiama “Kayah & Bregovic” (Bmg), e nei paesi dell’Europa dell’est è già un
“must” ad altissima tiratura.
Kayah
Nata
a Varsavia allo scadere dei “fabolous Sixties”, cresciuta
fra i gitani di casa a strettissimo contatto con le etnìe più
disparate (tartari e russi bianchi, soprattutto), già alla
tenerissima età di quattro anni Kayah sapeva a menadito quel
che avrebbe fatto da grande: «la cantante, ovviamente, ma non
soltanto quella: anche la musicista, la compositrice e
l’arrangiatrice dei miei stessi temi musicali: perché ho
molte cose da dire e non mi va di delegarle ad altri», dice ora
con una sicurezza sbalorditiva. Tant’è vero che anche in
questo album, il suo primo a diffusione internazionale,
l’esuberante chanteuse lascia a Bregovic spartiti e
pentagrammi, ma si occupa in primissima persona dei testi
poetici: che sono molto belli e molto intensi, e parlano quasi
sempre d’amore. Per esempio, ecco come rimano i versi di
“Dormi, amore mio” (il titolo in polacco ve lo risparmiamo):
«Quando la fede ti sposserà, e sul tuo viso cadrà un dolce
forte sonno... io, difesa dalle tenebre, scapperò il più
lontano possibile da qui... Io scapperò prima di divorarti
tutto. D’amore».
Sono versi molto totalizzanti, quasi cannibaleschi, che
richiamano un po’ il “mood” poetico di Robert Smith, il
leader dei Cure. E’ d’accordo, signora Kayah?
«Non
lo so.Infatti, io cerco sempre di mantenere una certa distanza
dalle cose che faccio, anche quando sono molto vicine al mio
cuore e toccano in profondità la mia sfera emozionale. Anche
dal punto di vista dello stile, chiamiamolo così, credo di
essere alquanto incostante, anche se cerco di non limitarmi mai.
Per cui, del mio “stile”, mi piace dire che è un qualcosa
che si può definire soltanto “in sottrazione”.E cioè
scaturisce una volta che siano stati eliminati tutti gli altri
stili di mia conoscenza».
Interessante,
signora Kayah. Lei è ancora giovanissima, ma già parla come
una veterana...
«Il
fatto è che, come le dicevo, io ho cominciato a cantare quando
ero poco più che una poppante, e poi ho frequentato per alcuni
anni la Scuola di Musica di Bialystok (la mia vera città
elettiva), e infine, a quattordic’anni, ho preso lezioni
individuali di canto: con l’unico obiettivo di costituire una
mia band, i Kult. Proprio con questa, due anni più tardi, ho
registrato il mio primo album, e poi ne ho incisi un’altra
trentina come corista, e da quando sono diventata “lead
vocalist”, cinque anni fa, ne ho già confezionati altri
quattro, e ora sto lavorando al quinto. Come vede, ne ho fatta
di esperienza...».
Già,
e poi c’è stata l’“attrazione fatale” con Bregovic.
Come sono andate esattamente le cose?
«Tutto
è successo un paio d’anni fa al Gala dei “Polish Music
Awards”, gli Oscar della musica polacca. Il destino ha voluto
che Goran e io fossimo seduti allo stesso tavolo, e penso che
questa “coincidenza” sia stata in un qualche modo pilotata
dalla grande considerazione in cui mi tengono i dirigenti della
Bmg polacca. Sta di fatto che in quell’occasione non abbiamo
progettato nulla di preciso, anche se devo ammettere che la
musica di Bregovic, ricca com’è di sentimenti ed emozioni, mi
ha sempre affascinato moltissimo: come tutta la musica dei
Balcani, d’altra parte, che sento molto vicina alla mia sfera
emotiva. E infatti mi piace definire il nostro disco come una
combinazione molto ben riuscita fra temperamento baltico e
sensibilità slava».
E’
uno slogan molto appropriato, ricchissimo di profumi etnici.
E’ la prima volta che le capita di avvicinarsi a materiali
della World Music, signora Kayah?
«No,
perché già in precedenza avevo registrato un disco di musica
etnica con Harkan Kurshun, il grande musicista turco, e anche il
mio nuovo album solista, che uscirà nella primavera di
quest’anno, contiene influenze e colori provenienti da ogni
parte del mondo. Per esempio dall’India, nel duetto che
improvviso con Mr. Dervish, oppure da Capo Verde, grazie alla
splendida disponibilità di Cesaria Evora.Una donna
assolutamente straordinaria, oltre che la mia cantante preferita».
Goran Bregovic
Violinista
di scarso profitto negli anni più verdi della sua gioventù,
anche Goran Bregovic, come già anni addietro Wim Wenders, ha
avuto la vita salvata dal rock. Rock in variante punk, nel suo
caso specifico, come ha avuto la sincerità di confessare nel
corso di un’intervista di un paio d’anni fa: «Nella
Jugoslavia dei tardi anni Settanta, che pur non era stata ancora
travolta dalle tragedie attuali, il rock - il punk, soprattutto
- rappresentava l’unico elemento in grado di farci sentire
vivi. Di farci comunicare, soprattutto, con i nostri coetani
delle altre nazioni europee».
Ma,
evidentemente, non stava scritto nel libro delle stelle che il
destino di Goran dovesse correre in parallelo con quello dei
suoi amatissimi Pink Floyd: «I miei rockisti prediletti, sempre
capaci di creare suggestioni meravigliose pur senza atteggiarsi
mai a divi». Stava invece scritto a lettere di fuoco che il suo
compito dovesse essere quello di riportare a nuovo splendore il
ricchissimo background musicale delle sue terre natìe: terre di
confine, dove da sempre riuscivano a coesistere (e speriamo che
in futuro ci riescano ancora) patrimoni culturali affatto
diversi fra loro: l’Islam e la Cristianità, il Medio Oriente
e l’Europa di mezzo.
Proprio
a questo fine, dapprima in combutta con Emir Kusturica - suo
amico d’infanzia e bassista nella medesima “punk band”
dove aveva esordito - e ora da solo, Bregovic ha riportato a
stringente attualità gli ottoni ottomani e i corni anteguerra:
per dare energia sovrumana alle sue composizioni in miracoloso
equilibrio fra l’ancestrale e il futuribile. Perché, come
ricorda con uno dei suoi proverbiali sorrisi beffardi, «è
sempre meglio una banda gitana magari stonata, che però suona
le sue marcette con bruciante passione, di una “Madama
Butterfly” imbalsamata dalla routine». Parole sante, caro
Goran!
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