Allora,
mister Moloney: proviamo innanzi tutto a chiarire il senso del
titolo...
«Certamente.
Per realizzare "Santiago", l’album precedente a
questo, avevo convocato un meraviglioso suonatore galiziano di
cornamusa, Carlos Nuñez. Bene, in un vecchio disco realizzato
da Nuñez - non mi chieda il titolo, perché non lo ricordo
proprio: sono i guai dell’età... - c’era una bellissima
canzone spagnola che si chiamava "Lacrime di pietra".
Mi è sembrato un titolo meraviglioso per quel che avevo in
mente...».
E
che cosa aveva in mente, di grazia?
«Un
album interamente dedicato all’amore in tutte le sue
sfaccettature, dalla gioia alla tristezza, dalla passione
all’odio, dall’estasi mistica all’"inferno" dei
sensi. Tutto, insomma, dalla a alla zeta. E interpretato
esclusivamente da "vocalist" al femminile, perché
penso che il talento interpretativo delle donne contemporanee
sia un qualcosa di assolutamente enorme, da diffondere
capillarmente in ogni angolo del globo. Tre anni filati ho
lavorato su questo progetto, e ora i risultati sono alla portata
di tutte le orecchie...».
Ritorniamo
per un attimo alle "vocalist", se non le dispiace.
Scorrendo l’elenco delle sue ospiti, si ha come
l’impressione di avere a che fare con un vero e proprio Gotha
della vocalità al femminile: Bonnie Raitt e Natalie Merchant,
Joni Mitchell e le tre sorelle Corr, Sinead O’Connor e Mary
Carpenter, Loreena McKennitt e Akiko Yano, Sissel e Joan Osborne, le Anuna e Diana
Krall... Un’autentica pacchia!
«Già,
e nel disco che le è appena stato dato manca Dadawa, la grande
cantante di Singapore che compare soltanto nella versione per il
mercato giapponese di "Tears of stone". Mi piace
talmente tanto Dadawa, che per lei ho appositamente realizzato
una musica molto particolare, diciamo
"cino-irlandese", che lei ha abbellito con una
sensibilità poetica assolutamente straordinaria. Si chiama
"Tears lake" questa canzone, e racconta di una giovane
che canta al suo amore lontano con una tale intensità
emotiva...che le lacrime che le sgorgano dagli occhi inondano la
terra fino a formare un immenso lago.Un lago di lacrime, appunto».
Molto
toccante. Ma mi dica qualcosa a proposito delle altre
interpreti: di Joni Mitchell, per esempio...
«Ah,
la carissima Joni... L’ho conosciuta in Giappone, dove abbiamo
tenuto insieme un concerto straordinario in una splendida
abbazia, c’era perfino Bob Dylan! Ah, Joni... In quel
concerto, lei interpretava una canzone, "Magdalene
laundries", che affrescava un convento che gestiva una
lavanderia, e il sentimento prevalente - fra prostitute, orfane,
ragazze-madri e donne depravate - era di una tristezza
devastante: una vera e propria disperazione, insomma. In tutta
sincerità devo dire che a me quella canzone non piaceva più di
tanto, ma lei insisteva nel volerla ripetere: "ci sento
dentro una specie di sentimento religioso, che può funzionare
benissimo nell’album dedicato all’amore che hai in mente
tu", continuava a ripetermi. Così ho voluto accontentarla,
mi sono messo a lavorare come un forsennato sulle armonie di
"Magdalene laundries" fino a farle diventare quel che
si ascoltano ora nel disco. E devo ammettere che i risultati,
ora, mi soddisfano appieno...».
E
Diana Krall?
«Prima
di lavorare con lei non la conoscevo proprio, devo dirlo in
tutta sincerità. Tant’è vero che, per il progetto di
"Tears of stone", avevo pensato di ingaggiare Aretha
Franklin: ma Aretha è così difficile da raggiungere... Allora
qualcuno mi ha presentato Diana Krall, e quando ho ascoltato i
suoi nastri sono rimasto totalmente basito: è un qualcosa di
assolutamente straordinario, una nuova Sarah Vaughan per
intenderci! A quel punto ho capito che la sua voce era davvero
l’ideale per quel che avevo in mente, una sorta di "irish
gospel" con tanto di cori in stile "jubilee",
infiorettato dai voli al violino del nostro Sean Keane.
Fantastico, no?».
Assolutamente.
Ma anche "Sake in the jar", la canzone di Akiko Yano,
mi pare del tutto particolare...
«Ha
proprio ragione. Ah, Akiko... Lei è un’interprete grandiosa,
capace di gettare un meraviglioso ponte fra Oriente e Occidente!
Mi ricordo quando ci siamo incontrati a Okinawa, con tutti quei
danzatori e cantanti e strumenti di ogni tipo che facevano
sembrare il mondo intero un piccolo villaggio multimediale! E’
stata un’esperienza stupefacente, e credo proprio che si
avverta un’atmosfera del genere dentro "Sake in the
jar". Una canzone che magari può sembrare un tantino
"etilica" - lei sa benissimo che il "sake",
per i giapponesi, è un po’ come il nostro whiskey - ma che,
in realtà, parla d’amore dalla prima strofa all’ultima.
Prosit!».