Fabrizio
De Andrè in concerto. Erano cinque anni abbondanti che non accadeva
più: per la precisione dal dicembre del 1991, quando il cantautore
genovese aveva chiuso, con uno straordinario concerto al teatro
Smeraldo, una lunghissima tournée dedicata all'indimenticabile disco
di allora, "Le nuvole". E nel frattempo, come è logico e
normale che sia, moltissime cose sono cambiate: in lui e attorno a
lui. Non parliamo soltanto del trascorrere del tempo, che è un
accidente che non risparmia nessuno, nemmeno gli artisti sommi del suo
grado. Parliamo del suo modo di intendere le esibizioni dal vivo: che
ora pare assai più disinvolto ed estroverso di quanto non sia mai
stato. E parliamo poi, essenzialmente, dell'entourage che gli ruota
attorno: che un tempo prevedeva la presenza più che rilevante di
Mauro Pagani, nel doppio ruolo di arrangiatore e multistrumentista, e
che ora vede invece la presenza di due persone ben diverse e distinte:
il figlio Cristiano ad azionare un numero inverosimile di strumenti,
quasi tutti a corda, e Piero Milesi nelle mansioni di "regista
occulto" dietro le quinte.
La
specificazione non è di poco conto. Infatti Milesi è, certamente, un
eccellente tessitore di suoni, e un estensore di partiture fra i più
raffinati e sottili del Belpaese: ma è anche fin troppo innamorato di
una concezione della perfezione formale che lascia pochissimo spazio
all'intuizione deviante e alla folgorazione sghemba: insomma a quel
lampo di lucidissima follia che permette, di per sè solo, di avviare
una scrittura musicale verso orizzonti e obiettivi non programmati in
precedenza. E Cristiano De Andrè, pur magistrale e duttilissimo
strumentista, non può certamente avere - nella sua scomodissima
posizione di "figlio di tanto Genio" - quel ruolo di
"sovvertitore dell'ordine musicale costituito" che così
efficacemente era riuscito a svolgere Pagani ai tempi della sua
duplice collaborazione con Fabrizio: con il già citato "Le
nuvole" e con il precedente, mai sufficientemente lodato,
"Creuza de mà": certo uno dei dischi più significativi, e
non soltanto in Italia, del passato decennio.
Giunti
a questo punto, ci rendiamo ben conto che la premessa fatta è tanto
lunga quanto singolare. Non capita infatti tutti i giorni di recensire
un concerto - tra l'altro bellissimo - rimpiangendo la figura di chi,
volente o nolente, se n'è ormai andato per altre strade: per esempio
a comporre la colonna sonora, davvero splendida, di
"Nirvana", l'ultimo film di Gabriele Salvatores. Ma il fatto
è che, fra gli addetti ai lavori presenti al Forum di Assago la sera
di venerdì 7 marzo, in occasione della tappa milanese del lunghissimo
tour di De Andrè, la constatazione che tutti esprimevano a mezza
bocca era solamente questa: "si sente la mancanza di Mauro
Pagani". E il bello è che questa lamentela - chiamiamola così -
non veniva sussurrata in segno di spregio dei due (bravissimi) fidi
maestri sostituti: proprio no. Ma perché era chiaro a chiunque avesse
orecchie per sentire che il concerto era troppo perfetto, troppo
impeccabile, troppo formalmente ineccepibile (in una parola: troppo
immobile), per riuscire a smuovere dal profondo delle viscere
emozioni, sensazioni, palpitazioni. Era come osservare un mare
magnifico, impeccabile nelle tinte e nel luccicante sfavillio dei
colori, in cui però mai un'onda, mai neppure la più piccola e
impercettibile delle increspature, andava a movimentare la quiete
paradisiaca dell'assieme.
Da
tempo immemorabile pensiamo (e siamo in eccellente compagnia, per
fortuna) che Fabrizio De Andrè sia il talento più clamoroso e
versatile della musica di casa nostra. Per come compone musica e
testi, per come li incastra l'uno nell'altra in maniera assolutamente
inestricabile, per come sillaba le frasi, per come le lancia in aria e
le lascia poi mirabilmente sospese nel tempo e nello spazio. E poi per
la voce, per l'uso delle scansioni e delle rime, per quel continuo,
coraggiosissimo, mettersi in gioco: che l'ha portato ad abbandonare
una strada sperimentata e sicura per andare a sondarne altre, ben più
impervie, rischiose, pericolose. Dunque non riusciamo a capire perchè
mai questo Grand'Uomo abbia voluto mettere insieme un'architettura
così perfettamente calibrata e strutturata da risultare, alla fine,
quasi priva di vita. E non soltanto nelle canzoni dell'ultimo album -
"Princesa", "Anime salve", "Dolcenera",
"Le acciughe fanno un pallone", "Disamistade", e
via elencando - ma perfino in quelle del suo passato più recente e
remoto: "Creuza de mà", "Sinun Capudan Pascià",
"Megu Megun", la straordinaria "Sidun", le
indimenticabili "Amico fragile", "Bocca di rosa",
"Via del Campo", "Il pescatore", "Canzone di
Marinella".
Non
lo capiamo, e non lo vogliamo neppure sapere. Anche perchè, a questo
punto, ci viene il vago sospetto che queste piccolissime critiche
redatte a margine di un concerto bellissimo (lo ripetiamo a scanso di
equivoci) siano solo dettate dall'enorme amore che nutriamo per lui: e
che ci fa ingigantire minuzie e particolari che altri potrebbero
ritenere, a giusta ragione, del tutto irrilevanti. Se è così,
chiediamo umilmente scusa. E amici come prima.
|