Joe Jackson in questo suo
ultimissimo lavoro, logica prosecuzione e complemento del "Night
and day" dato alle stampe nell’ormai lontanissimo 1982. Sulla
genesi di questo secondo atto, il cantautore di Burton on Trent,
Inghilterra, ci racconta la deliziosa favoletta che segue: "Un
angioletto mi bisbigliava in un orecchio, mentre un diavoletto mi
sussurrava nell’altro. Ma tutti e due mi dicevano che era arrivato
il momento di fare qualcosa che parlasse di New York. "Night and
day" era solo a metà su New York, presentava più che altro il
punto di vista di un nuovo arrivato, più generale. Invece questo
"Night and day II" è completamente su New York, racconta
storie precise di personaggi singoli con la città sullo sfondo, dal
punto di vista di chi ha vissuto nella Big Apple per anni". Fra i
cantori di questi "personaggi singoli", almeno tre meritano
gli onori della cronaca. Innanzi tutto la fantastica Marianne
Faithfull, che interpreta da par suo "Love got lost". Poi la
"chanteuse" persiana Sussan Deyhim, straordinaria interprete
di "Why". Last but not least, l’ultimissima scoperta di
Mr. Jackson: la "drag queen" Dale DeVere, entusiasmante in
"Glamour and pain". E tutto il resto è Joe Jackson allo
stato puro: tagliente, sarcastico, deflagrante.
Intervista
e recensione del concerto di Milano
Milano.
La figura allampanata di Joe Jackson fa la sua comparsa in scena (del
teatro Orfeo, stracolmo in ogni ordine di posti, giovedì 25 gennaio)
alle 9 precise della sera. Perché lui è abituato alla puntualità, e
se sui manifesti c’è scritto che lo spettacolo è alle nove... alle
nove in punto deve iniziare. A dispetto di tutti quanti sono abituati
al quarto d’ora (o anche alla mezz’ora) di "ritardo
accademico", e si affollano davanti alle casse per conquistare i
pochissimi biglietti ancora disponibili. Non c’è proprio tempo per
aspettarli, dopo un sacco di anni (saranno cinque, o forse anche di
più) di lontananza dalle scene italiane, e, soprattutto, dopo aver
pubblicato un disco come "Night and day II": prosecuzione
logica del volume dato alle stampe nel lontanissimo 1982, e anche
questo dedicato ai drammi, alle emozioni, alle isterie e alle paranoie
di New York. Vista di giorno ma soprattutto di notte.
A
pensarci bene, anche la figura allampanata di mister Jackson ha dentro
di sè qualcosa di profondamente newyorkese: scattante, instancabile e
nevrile com’è. E, per il resto, pare quasi un burattino senza fili
materializzato da un qualche esperto del teatro delle marionette: i
fratelli Colla, magari. Infatti si muove di continuo, e i suoi
movimenti sono sempre a scatti, e all’estremità delle interminabili
gambe indossa calzari che paiono quelli delle sette leghe, e invece,
all’estremità opposta, monta una faccia che sembra fatta di gomma,
tale e quale a quella sfoggiata agli esordi, una venticinquina d’anni
fa, ai tempi del punk più nudo, tagliente e crudo. Solo i capelli
sono cambiati, nel senso che ora si sono fatti ancora più radi e
completamente bianchi. E solo le gote mostrano evidenti tutti gli
acciacchi del tempo che scorre, perché quella morbidissima gomma
adesso è solcata da una ragnatela di rughe alquanto profonde, che
danno al loro titolare un’espressione ancor più aliena e remota,
tipo bambino vecchissimo appena giunto sul pianeta Terra dalla lontana
stella Arturo. Ma per il resto... tutto è come prima.
Il
ritmo, per esempio. Trascinante, infernale, incandescente.
Meravigliosa sintesi fra le percussioni di San Salvador de Bahia e i
timbales della salsa & merengue, l’energia sovrumana del punk e
le raffinatezze della classica. Che è evocata e costantemente
richiamata non soltanto dalla nuova collocazione discografica del
nostro Joe (sono ormai quattro gli album pubblicati sotto l’egida
della Sony Classical), ma soprattutto dalla presenza, dentro l’orchestra,
di strumenti come il violino e il violoncello. Manovrati da due
fanciulle di nome Alison (il cognome ci è sfuggito, pardon) e Dorothy
Lawson, che magari non saranno avvenenti come quelle sfoggiate a suo
tempo dal "tombeur de femmes" Bryan Ferry, ma, in compenso,
sono straordinariamente brave. E anche abilissime, pur essendo di
nuovissimo ingaggio, a integrarsi con lo straordinario lavoro
percussivo della veterana Sue Hadjopoulos e con l’incedere tellurico
del basso di Graham Maby, prtner ormai storico di mister Jackson.
E
poi, ovviamente, c’è la voce del nostro Joe. Che il trascorrere
degli anni non ha per nulla intaccato nella sua rinomata, tagliente
precisione, ma ha in compenso arricchito di innumerevoli sfumature,
iridescenze, sottigliezze e chiaroscuri. Di modo che, anche quando si
avventura a riproporre "song" vecchie di alcuni lustri (per
esempio "What you want", "Another world" e
"Breaking us in two"), c’è sempre un che di inedito e
interessante che svolazza nell’aria. Una sorta di sentimento nuovo,
insomma, del tutto identico a quello che gli ha "dettato" la
genesi dell’ultimissimo disco. Per dirla con le sue parole
originali: "Un angioletto mi bisbigliava in un orecchio, mentre
un diavoletto mi sussurrava nell’altro. Ma tutti e due mi dicevano
che era arrivato il momento di fare qualcosa che parlasse di New York.
"Night and day" era solo a metà su New York, presentava
più che altro il punto di vista di un nuovo arrivato, più generale.
"Night and day II" è completamente su New York, racconta
storie precise di personaggi singoli con la città sullo sfondo, dal
punto di vista di chi ha vissuto nella Big Apple per anni. Credo
dunque che il secondo capitolo di "Night and day" abbia più
humour del primo, e anche più amore per la città, nonostante
tutto".
Parole
sante. L’amore di cui parla Joe Jackson si è infatti visto e
sentito tutto, nel concerto di giovedì sera. Nelle canzoni nuove
proposte: "Prelude", "Hell of a town",
"Stranger than you", "Glamour and pain", tanto per
citarne alcune. E poi nella generosissima offerta - la prima in
assoluto, almeno in pubblico, a quel che ci dicono i jacksoniani più
rigorosi - di una meravigliosa "song" di un leggendario
newyorkese d’adozione: Duke Ellington, omaggiato da Joe (da solo, al
pianoforte) con una versione di "Satin doll" a dir poco
eccellente. E poi ancora nel modo - molto newyorkese davvero - di
rifare uno dei capolavori per antonomasia del David Bowie più
straniato e metropolitano, "Heroes": riproposto con un’energia
e una sapienza che non avevano proprio nulla da invidiare al modello
originale. E peccato soltanto che nella serata milanese non fossero
presenti le due Gran Dame ospitate nel disco, Marianne Faithfull e
Sussan Deyhim. Ma mister Jackson, da quell’impeccabile interprete
che è, le ha sostituite al meglio anche nell canzoni di loro
indiscussa proprietà: innervando "Love got lost" e
"Why" di una carica drammatica assolutamente esemplare.
Brechtiana, oseremmo dire. |