dalla tangenziale est della città, quella che porta all'autostrada per Brescia e Venezia. Diciamo invece ora di "Latino Americando", il festival di musica latino-americana edificato agli estremi opposti della città: nell'enorme parcheggio del FilaForum di Assago, proprio sotto l'autostrada che corre verso Genova (e anche il G8, almeno per questa settimana). E' un autentico miracolo di immaginazione architettonica e creativa, questo festival ormai giunto, con crescente successo, alla sua undicesima edizione. Perché soltanto una fervidissima fantasia e un'incrollabile fede nelle capacità taumaturgiche della musica avrebbero potuto trasformare una sterminata distesa di asfalto e cemento in un villaggetto così palpitante e colorato, zeppo di botteghe e di bar-discoteche-ristoranti, di prodotti dell'artigianato locale e perfino di mostre di pittura e scultura (per non parlare della fontana simil-azteca che sorge nella piazzetta centrale del borgo...). Ed è un vero peccato che i prodigiosi visionari responsabili del progetto non siano anche riusciti a depistare in luoghi più lontani e meno affollati le sterminate legioni di zanzare-stukas che imperversano anche da queste parti, e paiono proprio un grazioso omaggio della giunta Albertini ai milanesi rimasti in città. L'avessero fatto, meriterebbero un epitaffio elevato a futura memoria.
Ma bando alle ciance, dato che la cronaca di domenica 15 luglio incombe. E riguarda l'arrivo, per la prima volta al festival, di uno dei grandi della nuova musica brasiliana: Carlinhos Brown. Che esce sul palco alle 10 precise de la tarde, mentre alle sue spalle sfrecciano rapidi i tir diretti in riviera, e sulla piazzetta davanti a lui comincia ad affollarsi tutta la colonia brasiliana di Milano: coloratissima, effervescente, scatenata, nuda fino ai limiti dell'immaginabile (e del non punibile a norma di legge). Carlinhos la omaggia con un urlo dei suoi, molto prolungato e molto gutturale, e ostenta il solito look a metà strada fra il divo hollywoodiano e il sacerdote del candomblé: barba nera e dreadlock lunghissimi e selvaggi, sormontati da una sorta di corona alta mezzo metro; occhiali scuri fascianti, modello Apollo 13 in missione verso Marte; palandrana bianca lunga fino ai piedi, e, sotto, un gilerino di lamè argentato da lasciar cadere a terra al momento più opportuno (e il momento arriverà presto, molto presto). E' lo stesso puledro scatenato che avevamo ammirato a Montreux, qualche anno fa. E' il medesimo "cut 'n' mix" di culture diverse, un po' brasiliana e un po' nero-americana, che spesso e volentieri deflagra nel kitsch tanto caro a James Brown e soci (già, perché forse converrà ricordare una volta di più che il nostro Carlinhos si chiama in realtà Antonio Carlos Santos Freitas, e ha deciso svariatissimi anni fa di acquisire il "nom de plume" che l'ha reso famoso in esplicito omaggio a Sua Maestà James Brown, the Sex Machine).
Anche il nostro Carlinhos, quasi inutile sottolinearlo, si sente alquanto Sex Machine. Lo si intuisce da come lascia cadere a terra, uno dopo l'altro, tutti gli ammennicoli del suo costume di scena: pantaloni bianchi esclusi, per fortuna. Lo si vede da come agita il bacino flessuoso (Elvis the Pelvis era nulla, al confronto) e da come arringa la folla: che gli risponde con la devozione che si riserva in esclusiva ai semidei. Lo si sente dal furore selvaggio con cui aggredisce la sua musica, scintillante cocktail di samba brasiliano e soul nero-americano (con l'aggiunta, qua e là, tanto per rendere più appetibile il tutto, di qualche spezia latina, araba e centro-africana). E questo accade soprattutto quando i tamburi diventano il "centro di gravità permanente" dell'intera architettura musicale, e vengono percossi in stato di quasi trance dai ragazzi - bravissimi - addestrati dallo stesso Carlinhos nella sua scuola di San Salvador de Bahia. Sono i tamburi tradizionali del candomblé, il "Rum", il "Rumpi" e il "Lé": consacrati alle divinità di questa misteriosa religione sincretica, metà cattolica e metà pagana. Ma, in aggiunta, c'è anche il "timbau", tamburo più "profano" e "terreno", che Carlinhos ha voluto introdurre nel corpaccione magmatico della sua musica già alcuni anni fa, ai tempi del Trio Elétrico: e che ora è una delle chiavi di volta della Timbalada, la sterminata band di sole percussioni (120 persone in tutto) che allieta le giornate di Candeal Pequeno, la comunità nativa del nostro.
Tutto questo accade la sera di domenica 15 luglio nel parcheggio del FilaForum di Assago, mentre le zanzare-stukas hanno finalmente deciso di concedere a noi poveri mortali qualche ora di sospiratissima tregua. E che importa se l'ultimo album di mister Brown, "Bahia do Mundo" (Virgin), è francamente deludente, zeppo com'è di canzoncine mielose e di violini piagnucolanti? Qua sotto, nel gran rullare di tamburi e nello scalpiccìo dei piedi che mimano il samba più infuocato, tutto questo non si vede, non si sente e soprattutto non si ricorda. Giungono alle orecchie soltanto le parole di pace di "Shalom", sorta di trasposizione in portoghese del "Penso positivo" di Jovanotti: stessa fede, stessa teosofia, stessa bandiera bianca sventolata con enorme fierezza. Si fissano in fondo agli occhi soltanto le centinaia di mani che, a un preciso ordine di Carlinhos, cominciano a levarsi verso il cielo e a vibrare, vibrare, vibrare... Per afferrare le energie dall'alto e trascinarle verso il basso, dice una splendida ragazza di colore al biondino che l'accompagna: che le aveva chiesto se quella fosse una pratica diffusa anche in Brasile da... mago Oronzo. Che sfacciato!
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