dolcemente vibratile e
nevrile, uscire con bella enfasi dai solchi di "Norwegian Wood", una delle canzoni di punta della sesta fatica dell'epopea
beatlesiana: "Rubber
Soul". I più curiosi, a quel punto, andarono a rovistare fra i
"credits" annotati sul retro di copertina, e lì scoprirono che quel delizioso pizzicato dall'aroma inconfondibilmente orientale proveniva da un antichissimo strumento indiano chiamato
"sitar": sorta di grande liuto a sei corde, quattro interne e due esterne, con un lungo manico munito di tastiera, sopra il quale vibrano altre tredici corde di risonanza: che sono poi quelle che forniscono allo strumento quella "voce" così unica e particolare, così ricca di armonici. I più intraprendenti proseguirono nelle indagini, al fine di individuare chi aveva introdotto il mite George Harrison alle gioie e ai misteri del
"sitar". E fu così che, quatto quatto, senza arrecare il benché minimo disturbo, il leggendario Sri Ravi
Shankar, altrimenti detto "the Godfather of Sitar", fece il suo ingresso nella pop music anglo-americana.Già allora assetata di tutto quanto profumava di misterioso, deviante e desueto. Già allora disponibile a cooptare il "diverso" anche nei suoi raduni più visionari e giganteschi: come puntualmente accadde con l'invito, prontamente accolto, a partecipare ai festival diMonterey (1967) e Woodstock (1969), e al "Concerto per il
Bangladesh" del 1971.
Ha appena compiuto ottant'anni - il 7 aprile scorso, per la precisione - il Maestro dei Maestri. Quello che ha trasformato il
"sitar" in un acclamatissimo strumento della Nuova Musica Universale: una World Music archetipica senza confini di luogo, di razza e di tempo. Quello che il celebre direttore d'orchestra Yehudi Menuhin ha voluto paragonare addirittura a
Mozart, "per il genio musicale così inestricabilmente connesso all'umanità sconfinata". Ma di
sè, come sempre accade ai pionieri di infinito talento, Ravi Shankar non vuole quasi parlare. Pur avendo lavorato al fianco di una smisurata varietà di artisti, liberamente spazianti fra André Previn e Philp
Glass, preferisce rendere tutto l'onore e la gloria al suo "guru" per antonomasia: Ustad Allauddin Khan, meglio conosciuto con l'appellativo affettuoso di Baba (in lingua: padre), morto più che centenario il 6 settembre 1972. "Era un grandissimo saggio", dice Shankar di lui, "che nel corso della sua vita ha fatto ciò che non sono riusciti a fare in trecento anni centinaia di uomini messi insieme! Pur rispettosissimo dell'intero patrimonio della tradizione indiana,
Baba, da quel grande visionario che era, è riuscito a infondere nuovissima linfa vitale nella musica strumentale. In particolare, l'ha trasformata in un suono per "essere Nada
Brahma".In una via per raggiungere Dio".
Parole sante! Che però si potrebbero ripetere, pari pari, per lo stesso Sri Ravi
Shankar. In vita sua, infatti, il "Godfather of Sitar" ha composto più di trenta
"raga", vale a dire la quintessenza stessa della musica classica indiana: un frammento di melodia codificato dalla tradizione e direttamente canalizzato dagli "spiriti guida" del musicista, che il performer indaga a suo piacimento in un processo di introspezione (e improvvisazione) che può durare svariate ore, e che ricorda da vicino il cammino verso l'Illuminazione dei saggi. E proprio un'intuizione del genere ci attendiamo dal concerto, unico in Italia, che il Maestro terrà a Bologna, venerdì 30 giugno, nell'ambito della splendida rassegna "Per te", ideata e diretta da Giovanni Lindo Ferretti. In particolare, ci attendiamo pace, armonia e
"good vibrations". E un arcobaleno di quelle meravigliose tonalità pastello gentilmente evocate dall'aforisma sanscrito
"Ranjayathi iti Ragah": ciò che colora la mente è un raga.
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