Ricercatori dell’Icb-Cnr e del dipartimento di
matematica dell’Università di Portsmouth, confermano
che la resistenza tipica del cancro alla prostata
potrebbe essere causata dalle stesse terapie
ormonali utilizzate per curarlo.
Prostata - Henry Gray -
Anatomy of the Human Body
L’elevato tasso di
ricaduta che caratterizza il tumore alla prostata
potrebbe essere attribuibile anche agli effetti
delle terapie ormonali impiegate per contrastarlo. A
sostenerlo, attraverso l’analisi di un modello
matematico elaborato per simulare il decorso della
malattia, è uno studio condotto da un team
dell’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio
nazionale delle ricerche (Icb-Cnr) di Napoli in
collaborazione con il dipartimento di matematica
dell’Università di Portsmouth, in Inghilterra,
recentemente pubblicato su Cancer Research e
segnalato nei ‘Research Highlights’ di Nature Review
Urology. Se confermate dalla sperimentazione in
vivo, queste informazioni consentirebbero di
rimodulare le terapie in modo da renderle più
efficaci.
“Nella pratica clinica
la crescita del carcinoma prostatico si contrasta
mediante terapie mirate a sopprimere la produzione
degli ormoni maschili (androgeni) responsabili sia
dello sviluppo dell’apparato genitale sia della
progressione della malattia. Tuttavia, questo tipo
di tumore spesso sviluppa una resistenza a questi
trattamenti ormonali, ovviamente associata a una
ripresa della malattia”, spiega Alessia Ligresti
dell’Icb-Cnr. “In tale refrattarietà del tumore
verso le cure, si riteneva già che un ruolo
fondamentale fosse svolto dall’attività delle
cellule neuroendocrine formatesi a partire da quelle
tumorali. L’obiettivo della nostra ricerca, quindi,
era quello di fare chiarezza sui meccanismi
biologici alla base di questo fenomeno”.
Secondo la ‘Prostate
Cancer Foundation’, nonostante le terapie impiegate
nei carcinomi prostatici diagnosticati precocemente
mostrino un’elevata percentuale di successo, si
osserva comunque un tasso di recidiva all’incirca
del 20-30% nel quinquennio post-trattamento.
Un particolare
protocollo di differenziamento neuroendocrino messo
a punto dai ricercatori ha permesso di riprodurre in
vitro quello che accade nei pazienti sottoposti a
terapie ormonali. “Le cellule tumorali sottoposte a
lungo a deprivazione androgenica, cioè
all’abbassamento dei livelli di androgeno, si sono
differenziate in cellule di tipo neuroendocrino
apparentemente benigne, simulando quanto avviene
nella fase di regressione della malattia”, prosegue
Ligresti. “L’analisi Nmr (Risonanza magnetica
nucleare) ha poi evidenziato che le cellule benigne,
a differenza di quelle tumorali, producono
un’abbondante quantità di un precursore
dell’androgeno. Grazie allo sviluppo di un modello
matematico è stato possibile predire il
comportamento di queste cellule per tempi più lunghi
(400 giorni) di quelli sperimentali e dimostrare
che, quando i livelli di androgeno prodotti dalle
cellule neuroendocrine sane raggiungono livelli
critici, si osserva la ripresa delle cellule
tumorali residue. In questo modo i ricercatori hanno
potuto costatare come quello che inizialmente sembra
essere un effetto positivo dei trattamenti ormonali,
e cioè la trasformazione delle cellule malate in
cellule sane, potrebbe in realtà promuovere la
successiva ricomparsa del carcinoma nella forma
resistente”.
I ricercatori intendono
confermare tale ipotesi utilizzando modelli animali
e campioni biologici di origine umana. “La convalida
in vivo di questi risultati permetterebbe così di
sviluppare modelli predittivi più complessi, in
grado di rivelare i biomarcatori collegati al
manifestarsi della resistenza del tumore prostatico,
e contribuirebbero a migliorare l’efficacia delle
cure”, conclude Ligresti.
Per saperne di più sulla prostata...
Per saperne di più
Cancer Research
Neuroendocrine Transdifferentiation in Human
Prostate Cancer Cells: An Integrated Approach
link...
MDN |