Pat
Metheny
L'intervista
Milano.
Attivo da ben cinque lustri sulla scena del jazz (jazz?) più
aperto e innovativo (la data di nascita ufficiale del suo ormai
leggendario Group risale addirittura al 1977), detentore di un
record alquanto bizzarro, e certamente degno di finire nel
Guinness dei primati (è lunico ad aver vinto la bellezza di
sette Grammy Awards consecutivi per altrettanti dischi), il
poliedrico chitarrista Pat Metheny fa la sua comparsa la mattina
di martedì 29 gennaio, a mezzogiorno in punto, nella saletta
moquettata di un raffinatissimo albergo milanese.
E sorridente,
affabile e gioviale, come suo solito. E
dice subito che è qui presentare il suo ultimo disco -
Speaking of now, Wea, in uscita l8 febbraio prossimo - e
il
suo
prossimo tour mondiale (la partenza è fissata per metà febbraio,
negli Stati Uniti, mentre in Italia arriverà ai primi di giugno),
ma anche, esplicitamente, per dire tutto il bene possibile
dellItalia: «Lo sanno tutti che io amo esibirmi soprattutto
nei paesi latini, dove il pubblico è più caldo ed entusiasta.
Proprio
per questo, in unipotetica Top Five dei miei siti prediletti,
metto nellordine il Portogallo, il Brasile e lArgentina, e
poi, a sorpresa, la Polonia, per la straordinaria competenza
musicale del suo pubblico. Ma, come ho già detto tante volte,
lItalia continua a essere al top del top! Ce lho nel cuore!»
Grazie
mille, mister Metheny! Ma ci vuol dire come è nato questo disco?
«Molto volentieri. Come già avrete avuto modo di notare,
accanto ai componenti storici del mio Group, il tastierista
Lyle Mays e il bassista Steve Rodby, ci sono ora tre musicisti
nuovi: il percussionista Antonio Sanchez, laltro percussionista
e vocalista Richard Bona, il trombettista (e vocalista) Cuong Vu,
nato in Vietnam e trasferitosi giovanissimo negli States, subito
dopo la caduta di Saigon. E la prima volta che nel Group sono
presenti strumentisti di una nuova generazione, di una generazione
successiva alla mia e a quella di Lyle e Steve, voglio dire, e già
questo è un elemento di grandissimo interesse. Ma ancor più
interessante è il fatto che Antonio, Richard e Cuo sono di una
bravura straordinaria._Mi hanno detto di essere cresciuti
ascoltando la musica del Pat Metheny Group, di averla ormai
acquisita nel Dna, e questa per me è una gratificazione
formidabile, credetemi! Ma ancor più bello è vedere come il loro
entusiasmo, la loro voglia di fare, hanno influito sul mio modo di
comporre musica. Wow... è fantastico!».
Ci
chiarisce meglio il concetto, per favore?
«Subito.
Prima ancora di inserirli nellorganico del Group, avevo
stabilito con Lyle Mays le coordinate fondamentali di questo nuovo
disco: dovevano ruotare attorno alla melodia, al feeling, alle
emozioni che la musica poteva direttamente evocare. Esattamente
come era successo anni fa, ai tempi dei miei primi album, e come
invece non era accaduto nei miei ultimi due dischi, tutti giocati
sul groove e sullorchestrazione. Bene, devo ammettere che
lenorme entusiasmo dei miei tre nuovi compagni davventura,
il loro formidabile senso di squadra, mi hanno molto aiutato
nellenfatizzare al massimo il lavoro sullo svoiluppo
melodico... Il lavoro sulle forme, per dirla in due parole... Lo
ripeto, sono stati straordinari!».
A
questo punto è proprio necessario chiederle come siano entrati
nella sua sfera dazione. Cominciamo da Antonio Sanchez...
«Comincio col dire che Antonio è sicuramente uno dei
migliori talenti attualmente in circolazione. Lho conosciuto a
Torino qualche tempo fa, quando con il suo gruppo faceva da
supporter a un mio concerto. Poi lho ritrovato a New
York, e lì abbiamo cominciato a suonare insieme, in duo. Mi sono
trovato talmente bene con lui, che subito ho pensato di
trasformare il duo in un quartetto, con laggiunta dei miei
soliti compagni Lyle e Steve. Ma poi ho capito che anche questa
soluzione non era sufficiente...».
Ed
è a questo punto che è entrato in scena Richard Bona...
«Già. Io lo conoscevo da tempo, e lo stimavo davvero
tantissimo._Così gli ho chiesto di segnalarmi se, nel nuovo giro
musicale newyorkese, conosceva la persona giusta per me e per il
mio progetto. Lui mi ha guardato dritto negli occhi, e poi mi ha
detto: Certo che la conosco. Sono io!. Io non credevo alle
miei orecchie, perché Richard era già molto importante a quei
tempi: era un vero e proprio band leader, e perdipiù
suonava il basso, mentre io avevo bisogno di un altro
percussionista. Ma lui ha insistito moltissimo, e mi ha detto che
suonare le percussioni era sempre stato il suo sogno... Così
lho provato e... WOW!... è stato fantastico! Non solo come
percussionista, ma anche come cantante!!!».
E
poi è arrivato il turno di Cuong Vu...
«Già, e lì la sorpresa è stata anche maggiore, se
possibile. Una notte stavo ascoltando la radio e suonava un trio
con tromba, basso elettrico e batteria. Una musica strabiliante,
che andava molto oltre i confini del jazz canonico... Così ho
chiamato Cuong per complimentarmi, e lui, di rimando, mi ha
chiesto se poteva entrare nel mio gruppo... Sembra una favola, ma
le cose sono andate proprio così! E io ne sono tremendamente
felice!».
Dunque,
è stato fortunato...
«Moltissimo, e devo ammettere che lo sono da sempre. In giro
per il mondo esistono moltissimi grandi musicisti, ma ben pochi
hanno la fortuna di poter fare un disco ogni anno, e organizzare
tournée di un centinaio di date in giro per il mondo, ed essere
citati in continuazione come esempi viventi di innovazione e di
ricerca sul proprio strumento. A me queste cose succedono
regolarmente da più di ventanni, e questa è la mia grande,
enorme fortuna!».
(Roberto
Gatti)
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