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Considerazioni finali del Ministro Willer Bordon alla presentazione della Relazione sullo Stato dell'Ambiente

 

Roma 31 Gennaio 2001

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente della Camera, Autorità convenute,
Signore e Signori

Parto dalla prima, ovvia domanda: la situazione ambientale in Italia è migliorata?
La risposta è sì: la situazione è migliorata. Ma non nella misura auspicata.
Scontiamo ritardi e gravissime sottovalutazioni nell’intero pianeta e da parte delle sue classi dirigenti. Per anni un vero e proprio sonno della ragione di cui pochi sono stati esenti. Nel nostro Paese, inoltre, a questi ritardi complessivi si sono assommati i limiti, le contraddizioni, le arretratezze del sistema nazionale. La pur notevole rincorsa di questi anni, dunque, non ha ancora del tutto superato la lunga salita.
Ma sarebbe riduttivo se ci limitassimo a considerare il nostro particulare. Nessun tema come quello dell’ambiente è senza confini e nessun tema come quello dell’ambiente risente degli effetti della globalizzazione.

Le preoccupazioni connesse all’effetto serra sono il termometro della prima attuale e credibile minaccia per l’ecosistema terrestre e l’evidenza del carattere globale della questione ambientale.
Le esigenze dell’attuale sistema produttivo e la salvaguardia della biosfera sono sempre più vicini ad una situazione di incompatibilità.
L’ultimo appello ci viene da Shanghai, dove qualche giorno fa gli scienziati di 99 Paesi si sono riuniti ed hanno lanciato l’ennesimo gravissimo avvertimento ed allarme.
Secondo i rapporti del Panel scientifico intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), entro il 2100 la temperatura salirà tra i due e i tre gradi centigradi nel mondo. Questo aumento della temperatura sarà più rilevante nelle regioni polari (fino a 8 gradi).

Le emissioni di gas serra stanno già crescendo al ritmo dello 0,5-0,7% annuo. Entro il 2100 la concentrazione in atmosfera sarà doppia di quella attuale.
I primi effetti dell’aumento della temperatura sono già evidenti: la variazione del regime delle piogge e la sempre maggiore frequenza di eventi climatici estremi, la modificazione delle colture agricole, con uno spostamento verso Nord delle attuali coltivazioni e la progressiva acidificazione delle aree meridionali, l’aumento dei rischi di malattie e di morte per le cosiddette onde di calore e una nuova recrudescenza delle malattie infettive.
Nel solo ’98 tutte ciò ha comportato danni stimati in non meno di 72 miliardi di dollari, provocando la morte di almeno 35.000 persone.
In Italia ciò potrebbe comportare entro il 2050 un aumento del livello del mare di 25/30 centimetri, con un rischio di inondazione di migliaia di chilometri quadrati di aree costiere e pianure. Uno scenario spaventoso, che non possiamo permettere si avveri.

uesto richiede un impegno straordinario. Mancano ancora, infatti, la coscienza che le politiche ambientali devono diventare parte integrante di ogni politica ai diversi livelli istituzionali, la comprensione della necessità di investire in ricerca ed innovazione, affinché sia possibile parlare di sviluppo sostenibile e non di tentativi di mera riduzione dei danni della insostenibilità. E soprattutto la capacità di spezzare l’equazione del Novecento: benessere commisurato alla crescita del PIL, conseguente aumento del consumo di energia e della mobilità, e quindi della produzione delle emissioni inquinanti. Equazione che, come evidente, è oggi messa in discussione dalla semplice constatazione che la crescita economica, il bisogno legittimo di nuovi beni e servizi da parte dei Paesi non sviluppati renderanno insostenibili, sino al punto di rottura, le pressioni sull’ambiente.

Già nel 1993 il libro bianco su crescita, competitività e occupazione della Commissione Europea affermava: "Per estendere all’intero pianeta gli attuali modelli europei di produzione e di consumo, occorrerebbe un quantitativo di risorse 10 volte superiore all’attuale. Questo rende facile immaginare quali problemi ambientali e quali tensioni politiche potranno verificarsi se le tendenze in atto non saranno orientate in modo diverso".
La rinuncia allo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, l’eliminazione degli inquinanti e dei rifiuti non riciclabili, l’equilibrio tra generazione e assorbimento dei gas serra, l’arresto dell’erosione della biodiversità e dei processi di desertificazione, la salvaguardia del paesaggio e degli habitat, l’orientamento ecologico dei prodotti alimentari ed industriali, sono le condizioni stesse affinché l’attuale crescita non si arresti e si conservino accettabili condizioni di vita.

Occorre riconoscere in maniera definitiva l’insostenibilità dell’attuale modello di crescita, constatare l’antinomia sempre più evidente tra la concezione stessa dello sviluppo, così come storicamente determinata, e la possibilità della sua sostenibilità.
Fuori dai miti apodittici del Novecento, che hanno dimostrato la loro inconsistenza ed il loro espandersi in immani tragedie, sta oggi la necessità di non lasciare solitaria la voce del Papa, Giovanni Paolo II, il quale ci ammonisce a non alterare oltre misura gli equilibri naturali rendendo irrespirabile il nostro pianeta.
In queste condizioni risulta intollerabile assistere al recente fallimento della Conferenza dell’Aja. Occorre dunque rimettersi in moto perché il filo della mediazione, per fortuna ancora non del tutto spezzato, sia ricomposto al più presto e si giunga alla ratifica del Protocollo di Kyoto entro la primavera del 2002.
L’Italia può e deve svolgere un ruolo fondamentale nella sua veste di presidente di turno del G8. Ho chiesto, inoltre, ai colleghi europei, che la mancata ratifica non impedisca intanto di proseguire in Europa verso gli impegni di riduzione delle emissioni.
Voglio segnalare alcune ragioni che rendono opportuna questa decisione:
Il mercato mondiale dell’energia, il sistema industriale, i consumatori europei e degli altri Paesi industrializzati, devono avere un indirizzo urgente nella direzione degli investimenti in tecnologie, prodotti e beni di consumo. Il Protocollo di Kyoto rappresenta l’occasione più concreta per dettare regole e standard, intanto a livello europeo, che diano sicurezza e prospettiva agli investimenti nelle nuove tecnologie efficienti e pulite.

I Paesi di nuova industrializzazione, che irrompono sui mercati mondiali con una crescente domanda di energia, chiedono di poter accedere direttamente alle tecnologie più efficienti, e l’offerta di queste tecnologie a prezzi competitivi dipende in primo luogo dalla capacità di creare un mercato forte al nostro interno.
La ratifica del Protocollo da parte dell’Unione Europea determinerà una forte posizione negoziale nei confronti degli USA e del Giappone, non solo e non tanto per la pressione che potrebbe essere esercitata dall’opinione pubblica mondiale, ma soprattutto per il rischio delle industrie americane e giapponesi di trovarsi "scoperte" rispetto agli standard di efficienza e compatibilità ambientale offerti dalle tecnologie e dai prodotti delle industrie europee su tutti i mercati.

 


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